Ciclicamente, ad ogni avvicendamento al vertice oppure di fronte a qualche esternazione dal vago sapore d’apertura diplomatica, l’attenzione sulla politica iraniana si riaccende di colpo, anche se, ad onor del vero, per alcuni non sia mai calata, specialmente americani ed israeliani.
Tutto il mondo osserva l’Iran con estremo interesse, nell’auspicio che qualcosa prima o poi cambi davvero, al di là delle ipotesi e delle valutazioni, quasi sempre sementite dai fatti, e che sia finalmente possibile interpretare correttamente le dichiarazioni rilasciate dai vari esponenti di governo, talvolta ostili, altre apparentemente più inclini al dialogo ed alla negoziazione.

Di fatto, però, nulla muta concretamente ed insieme agli strali ed alle minacce rivolte ad Israele si deve fare i conti con il progetto di proliferazione nucleare, sebbene gli interessati lo definiscano per scopi civili, e con gli ammonimenti continui agli USA. Al suo primo mandato, il Presidente Barack Obama tentò un’apertura dialettica, anche disposto a riconoscere all’Iran un ruolo da primo attore nello scacchiere geopolitico, ma i risultati sono stati assolutamente deludenti ed il regime di Teheran ha proseguito con invettive ed intimidazioni, come quelle delle ultime ore lanciate dall’autorevole Vice Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate iraniane, Massoud Jazayeri, che ha cercato di dissuadere l’Amministrazione statunitense dall’intervenire militarmente in Siria.

Ancora una volta, l’Iran non solamente fa la voce grossa, ma si propone come autentico ago della bilancia dei fragilissimi equilibri mediorientali, apertamente schierata al fianco di Bashar al Assad, contro gli insorgenti siriani, evoca scenari di guerra per tutta l’area, fino a far preoccupare Israele, sul quale grava costantemente la minaccia delle milizie sciite di Hezbollah, attestate in Libano e sostenute proprio da Teheran.

Il cambiamento al vertice della Repubblica Islamica dell’Iran, concretizzatosi il 03 agosto con l’insediamento del sessantaquattrenne Hassan Rohani, nemmeno in questa occasione così delicata ha determinato un affievolimento delle tensioni, né uno spiraglio di dialogo costruttivo, contrariamente a quanto sperava l’intero occidente. Eppure, l’elezione del neo presidente aveva fatto sperare più d’un osservatore, pronto a ricostruirne i trascorsi politici ed a classificarlo come riformista-moderato, nonostante il suo debutto in politica a sostegno dell’ayatollah Khomeini, nella seconda metà degli anni ’60 del 1900. A favore di Rohani ha giocato anche il suo precedente ruolo di Segretario del Consiglio Supremo della Sicurezza Nazionale, in virtù del quale ha negoziato con i rappresentanti dell’AIEA – Agenzia Internazionale Energia Atomica – proprio sul tema del progetto nucleare iraniano.

Anche questa volta abbiamo fallito e la fame d’entusiasmo ha prevalso sui ragionamenti e sull’esperienza. Taluni hanno azzardato l’ipotesi che l’elezione di Rohani sia parte d’una strategia d’ampio respiro, volta un po’ a depistare gli osservatori occidentali ed un po’ ad ottenere una riduzione della pressione politico-economica, così da poter agevolare una ripresa interna. Per talaltri, lo scenario iraniano rimane un’incognita estremamente difficoltosa da comprendere, talmente tanto complessa da suggerire analisi estemporanee e focalizzate esclusivamente su specifici episodi, troppo spesso scollegati tra loro e, soprattutto, non organici ad un esame realmente strategico. Solamente gli israeliani hanno mantenuto invariato il loro giudizio sulla realtà iraniana, fino a far dichiarare al premier Benyamin Netanyahu che “il presidente – iraniano – può essere cambiato, ma il regime non è stato rimpiazzato”. A sostegno delle tesi israeliane ci sono anche alcune frasi che lo stesso Rohani avrebbe pronunciato durante la cerimonia d’insediamento, volte a confermare l’intenzione dell’Iran di sviluppare il progetto nucleare, testimoniando nel contempo una continuità con le posizioni politiche del suo predecessore, Mahmoud Ahmadinejad. Sul progetto atomico, inoltre, sembra che la posizione prevalente sia quella della Guida Suprema dell’Iran, Ali Khamenei, che è stato presidente del Paese dal 1981 al 1989.

Certo è che fidarsi delle apparenze non giova, tantomeno riservare speranze in un personaggio del quale si conosce più la biografia ufficiale che il pensiero politico. Al momento, comunque, la situazione si presenta spinosa almeno per due motivi, difficilmente scindibili: la riapertura d’un tavolo negoziale sul programma nucleare, che in qualche modo subisce l’interferenza della Russia; il ruolo sponsor che l’Iran non intende abbandonare nei riguardi del regime siriano.

Per quanto riguarda la prima delle due questioni all’ordine del giorno, bisogna tener presente che sebbene il neo presidente iraniano sia ritenuto moderato, ciò non vuol dire che sia disposto ad intraprendere una linea rinunciataria nei riguardi degli USA e dell’occidente, senza peraltro trascurare gli aspetti diretti con Israele. Il programma nucleare, infatti, è sostenuto dall’intera popolazione iraniana, paladina orgogliosa di rivestire un ruolo carismatico alla testa della componente musulmana sciita nello scacchiere geografico, fino ad autoproclamarsi mezzaluna fertile, con riferimento alle altre ramificazioni sciite presenti nel confinante Iraq, in Siria ed in Libano. Il ruolo d’alfiere dell’identità sciita non va assolutamente sottovalutato, poiché s’oppone, non solo idealmente, alla prevalenza dei musulmani sunniti sostenuti dall’Arabia Saudita e dal Qatar.

Lo scenario, quindi, è ben più complesso di quanto si possa immaginare a prima vista e l’ipotesi d’un intervento pacificatore in Siria, prospettato delle Amministrazioni statunitense e francese, deve essere osservato attentamente al microscopio, prima di ritenerlo in grado di stabilizzare una situazione quanto mai precaria. Se da una parte l’opera della diplomazia non ha finora sortito i risultati auspicati, dall’altra il contesto siriano appare come una vera e propria polveriera, capace d’infiammare l’intera area, con ripercussioni anche ad ovest d’Israele, in quelle terre dove la primavera araba ha determinato più instabilità che progressi sociali ed economici.

Come sempre, per i decisori è necessario ragionare e valutare con attenzione, anzi perfettamente, avvalendosi di tutti gli strumenti d’analisi disponibili, non ultimi quelli che l’intelligence può porre a disposizione. Il cuore, già da tempo, ci direbbe d’intervenire per arrestare una lotta fratricida dimostratasi sempre più sanguinosa, che non può oggettivamente risparmiare la popolazione civile, resa ultimamente ancor più insopportabile dal sospetto che i lealisti abbiano fatto ricorso ad armi chimiche. La razionalità, però, ci suggerisce d’escogitare ulteriori strumenti di pressione diplomatica, prima d’avventurarsi militarmente, con prospettive estremamente incerte. Il vero nodo della questione, infatti, non è stabilire le potenzialità militari d’intervento e difesa, certamente a favore degli USA e degli alleati, ma il connotato politico dell’eventuale azione, che innescherebbe immediatamente una serie d’altri fattori, perlopiù negativi e proiettati nel tempo.

Questa volta non ci sarebbe nemmeno la necessità di ricercare la pistola fumante, come nel caso del dispiegamento in Iraq, perché anche l’organizzazione MSF – Medici Senza Frontiere – ha dichiarato che trecentocinquantacinque persone decedute negli ospedali siriani presentavano inequivocabili sintomi neurotossici, attribuibili a gas – nervino – . Al riguardo, pure l’intelligence statunitense avrebbe pochi dubbi sull’impiego di armi chimiche contro la popolazione civile, così che il Presidente Obama starebbe esaminando un’eventuale reazione militare, ovviamente sotto l’egida dell’ONU. Nell’attesa, naviglio della Sesta Flotta sta navigando nel Mediterraneo, per avvicinarsi alla Siria.

Qualcuno parlerebbe di venti di guerra, abusando d’una terminologia di circostanza, ma certamente il livello d’allarme è in ascesa, mentre Israele già s’esprime a favore d’una eventuale risoluzione militare statunitense.

Se si parla di ONU, però, c’è da prevedere il veto della Russia e della Cina, non tanto perché siano entrambe favorevoli a stermini ed atrocità, quanto perché vogliano sia sottolinearsi politicamente, sia contrastare per l’ennesima volta le posizioni statunitensi e dei loro sostenitori, nonché, infine, giocare adesso e nel futuro un ruolo determinante nel teatro mediorientale.

A questo punto della storia, la Comunità Europea è chiamata ad esprimersi, come avvenne per la crisi balcanica, addirittura prima dell’avvento dell’Euro, e, più recentemente, per gli scenari subsahariani, primo fra tutti quello libico. All’interventismo della Francia, forse eccessivamente precipitoso, ha immediatamente replicato il cancelliere tedesco, Angela Merkel, da sempre riottoso ad immaginare grandi manovre e convergenze militari. L’Europa non ha trovato una linea condivisa e probabilmente i ministri degli esteri dovranno ancora lavorare molto per un’intesa comune, capace di suggerire progressive linee d’intervento. Da oltremanica, la Gran Bretagna non s’è fatta attendere ed ha sostanzialmente accolto la tesi americana, giudicandolo inaccettabile l’impiego di armi chimiche contro la popolazione inerme. L’Italia dovrà dire la sua, in un quadro di responsabile collaborazione che, però, non mortifichi gli interessi e le ambizioni nazionali.

Intanto, mentre tutti mostrano un po’ i muscoli, la diplomazia ancora è alla ricerca di sprazzi di luce ed un primo risultato potrebbe giungere dall’autorizzare un’ispezione dell’ONU, per accertare la portata degli effetti dei gas e valutarne gli effetti reali. Si tratterebbe più d’un gesto politico, che d’una apertura da parte del governo siriano, poiché sull’uso di sostanze tossiche sussistono ben poche perplessità.

Maurizio Carboni

Docente

Dipartimento di Scienze Informative per la Sicurezza

U.P. UNINTESS – Università Internazionale di Scienze Sociali

16.08.2013

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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