La Primavera Araba, movimento socio-politico di autocoscienza dei popoli arabi, impone o quantomeno sollecita una riflessione sul posto da assegnare alla religione nel nuovo assetto democratico desiderato.

Al riguardo si fa un gran parlare di “modello turco”, ovvero di una sintesi vincente tra Islam, democrazia e capitalismo.

È bene quindi chiedersi se e in quale misura l’Islam politico Turco possa essere “esportabile” tout court.

Tale riflessione presuppone il rifiuto di approcci essenzialisti: per “essenzialismo” si intende l’orientamento per cui l’Islam ha un’essenza fissa e determinata che lo rende uguale a se stesso in ogni tempo e in ogni luogo.

Questo approccio astorico mal si adatta a una piena comprensione del momento di “modernità” vissuto dalla religione e dalle sue declinazioni sociali.

La dottrina e la pratica religiosa non sono le cause necessarie e sufficienti delle trasformazioni che investono la società islamiche, esse vengono trasformate dalle relazioni tra stato e società.

È necessario quindi cogliere l’elemento dinamico di tale dialettica, concependo l’Islam non come sovrastruttura monolitica, ma come forza dinamica egemonica o contro-egemonica (questo naturalmente dipende dalle fattispecie analizzate) in forte relazione di necessità con le altre forze agenti. In altre parole, l’Islam è passibile di trasformazioni in grado di coniugarne il dettato con leggi ormai ineludibili di un mondo globalizzato.

Il caso turco mostra chiaramente come il dettato religioso possa essere reinterpretato alla luce delle contingenze, creando un’identità islamica socialmente accettabile ed accettata, ma soprattutto in grado di farsi espressione delle inascoltate istanze della popolazione.

La vittoria dell’RP (Refah Partisi, letteralmente Partito della Virtù) alle elezioni del 1995 ne costituisce un validissimo esempio. L’inclusione nel sistema, modera non solo il linguaggio radicale utilizzato in campagna elettorale, ma anche l’agenda politica, facendo del Refah una valida alternativa di governo. Tale mutamento risulterebbe incomprensibile acquisendo una concezione “jihadista” della religione.

Altro esempio rilevante è rappresentato dalla pubblicistica del MÜSIAD, la “Confindustria” dei piccoli e medi imprenditori islamici che, al fine di esaltare il libero mercato e criticare lo stato clientelare kemalista, non esita a reinventare la figura del Profeta in chiave imprenditoriale, facendone il mercante per eccellenza.

Diverso, se non opposto, è l’esempio rappresentato dall’AKP (Partito della giustizia e dello sviluppo) dell’attuale premier Recep Tayyip Erdogan.

A distanza di poco meno di un anno dalla sua formazione, con la vittoria di 363 seggi su un totale di 550, l’AKP fu chiamato dall’elettorato nel novembre 2002 a dirigere il Paese. Quali i fattori che permisero questa vittoria? Gli analisti fanno in genere riferimento a una congerie di fattori eterogenei:

la frustrazione della popolazione nei confronti di un sistema corrotto e distante, che sfociò nel consenso all’unico partito in grado, nella loro percezione si intende, a produrre un reale cambiamento; la necessità avvertita dalla popolazione di una leadership morale ed attenta alle istanze politiche provenienti dal basso; il bisogno di riforme in campo economico per arginare la dilagante crisi, sono solo alcune delle cause storiche che portarono all’affermarsi dell’AKP nell’arena politica.

Il programma del partito si presenta, quantomeno inizialmente, tutto incentrato su una cosciente cesura con il passato kemalista e islamista.

L’assenza di un progetto di islamizzazione sociale top-down, come dell’obiettivo ultimo di imporre la Seriat (legge islamica) come unica fonte di legittimità; la concezione dello stato come espressione del voto popolare piuttosto che come macchina burocratica per implementare e imporre disegni politici, unito all’assenza di qualsivoglia retorica islamica nel linguaggio politico del partito, fanno pensare alla necessità di travalicare i confini dell’islamismo puro, attraverso una nuova sintesi tra religione e politica.

Erdogan non perde occasione per rimarcare pubblicamente la natura democratica del proprio partito, affermando al contempo l’importanza di una visibilità pubblica della religione, che non deve essere concepita come una sfida al secolarismo e conseguentemente allo status quo, quanto un traguardo democratico. Da forza anti-sistemica nella concezione kemalista, l’Islam turco trova il suo posto sotto l’ombrello democratico, rivendicando un proprio spazio pubblico in un sistema per definizione pluralista.

Con questo non si vuole intendere la totale indifferenza nei confronti di temi religiosi da parte del partito, quanto sottolineare un cambiamento radicale del modo con cui tali istanze vengono affrontate nell’arena politica, nonché il ruolo determinante esercitato da forze storiche contingenti.

Il rifiuto dell’essenzialismo implica altri due ordini di considerazioni: primo, la sostanziale non esportabilità del modello turco di sintesi islamico-democratica.

Mutatis mutandis se l’Islam non deve essere considerato sempre uguale in ogni tempo e in ogni luogo, così le declinazioni politiche dell’Islam non possono essere esportate ed applicate in ogni tempo e in ogni luogo, poiché espressione delle caratteristiche e della storia di un popolo.

Secondo, la Turchia può essere considerata come esempio di successo di tale sintesi e come prova provata della possibilità di convivenza tra Islam e democrazia.

Dario De Santis

Avatar

Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

Lascia un commento