“Pubblici dipendenti e doppio lavoro, la sconosciuta evoluzione delle norme.

Rischi e decadenza dell’impiego.”

L’ammaliante quesito che quotidianamente si pone il pubblico dipendente è sempre il medesimo: SECONDE ATTIVITA’: MA SI PUO’ O NON SI PUO’? Cosa si rischia?

Dopo anni di oscurità totale in materia, di voci di corridoio, di chiacchiere funeste da bar, di sanzioni disciplinari e sentenze opposte, di gioia e dolore, di paure e nascondigli, di sicurezze e convincimenti contrapposti a dubbi indecisioni e perplessità, ecco finalmente la verità.

Ma il Pubblico dipendente e il dipendente appartenente alle forze armate, può esercitare prestazioni lavorative extraprofessionali oppure no?

Nonostante ancora troppi suppongano il contrario, la risposta è: SI!

Finalmente l’utopia, la chimera, la risposta che per anni è stata incessantemente attesa ed elucubrata nelle fantasie e fantasticherie di centinaia di dipendenti. Era attesa. Ed è tutto vero.
Chiaramente è utile in primis delineare ciò che prescrivono inequivocabilmente le norme di ordinamento contrapponendole a ciò che è l’evoluzione giurisprudenziale intercorsa negli anni.

Il primo rilevante aspetto del servizio permanente, è relativo alle incompatibilità tra il rapporto di impiego pubblico (personale a regime militare o civile) e altre situazioni genericamente lavorative. Il concetto di incompatibilità risiede nel dovere del pubblico dipendente, civile o militare che sia, di porre a disposizione dell’amministrazione pubblica tutte le proprie energie fisiche e psichiche, per l’adempimento dei doveri inerenti al rapporto di impiego. Quindi, in linea di massima, è incompatibile l’esercizio di ogni altra professione, con l’unica deroga stabilita per gli ufficiali medici che, per il loro necessario aggiornamento, possono svolgere, entro determinati limiti, attività libero-professionale.

L’incompatibilità tra prestazione lavorativa del dipendente della pubblica amministrazione e attività lavorative concomitanti ed extraprofessionali deriva dal principio di esclusività stabilito dall’art. 98, 1° comma della costituzione secondo il quale “i pubblici dipendenti sono al servizio esclusivo della nazione, ne va del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione” (art. 97, 1° comma, Cost.).
Citiamo di seguito il D.P.R. n. 3 del 10 gennaio 1957 (Statuto impiegati civili dello Stato) al quale, in parte, per determinate caratteristiche affini, sono stati equiparati i vari pubblici dipendenti anche appartenenti alle forze armate, e dal quale sono stati estratti i vari ordinamenti interni delle amministrazioni. Il testo unico viene spesso richiamato quando si parla di regime e disciplina delle incompatibilità: ““l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro competente”.

Importante segnalare che occorre aggiungere a tale norma, oltre che commercio e industria, anche l’artigianato, in quanto, pur non essendo prettamente richiamato nella direttiva, ne risulta affine. (Consiglio di Stato Sezione IV, 24 settembre 1993, n. 629)

(Giova precisare che l’artigianato a cui ci si riferisce è quello imprenditoriale, da non confondere con le proprie piccole opere artigianali a carattere creativo).

Negli anni sono state decine le impugnazioni dei pubblici dipendenti colti nell’esercizio di attività extra, tanto che la giurisprudenza, a seguito di specifiche sentenze spesso avverse alle norme dell’ordinamento, si è drasticamente evoluta, forgiando il solco nel quale si erigono imponenti radici della riforma attuale sulla disciplina delle incompatibilità.

In base all’ordinamento appena citato, chi veniva colto ad esercitare attività extra, veniva sottoposto alle ferree disposizioni dello stesso, le quali narrano testualmente: “Nei casi in cui l’impiegato contravvenga ai divieti prescritti nello statuto, viene diffidato dal Ministro o dal Direttore Generale competente, a cessare dalla situazione di incompatibilità entro 15 giorni.

La circostanza che l’impiegato abbia obbedito alla diffida non preclude l’eventuale azione disciplinare. Decorsi quindici giorni dalla diffida, senza che l’incompatibilità sia cessata, l’impiegato decade dall’impiego. la decadenza è dichiarata con decreto del Ministro competente, sentito il consiglio di amministrazione.”

L’articolo è stato così integrato definitivamente dal Consiglio di Stato:
“Le attività di lavoro citate dall’art. 60 testo unico 10 gennaio 1957 n.3, per essere considerate quale elemento assolutamente contrastante col rapporto di pubblico impiego tale da implicare una vera e propria incompatibilità, punibile con il provvedimento di decadenza dall’impiego (art. 63 dello stesso testo unico), devono ricoprire il presupposto, oltre che della continuità, anche della professionalità, intendendosi con ciò, un’attività che sia prevalente rispetto ad altre nonché direttamente, proporzionatamente e adeguatamente retribuita e lucrativa.” (Consiglio di stato n. 1080/89)
Invocando il principio di “esclusività”, è incompatibile, indipendentemente dalla sua inclinazione, qualsiasi attività non pertinente al rapporto di impiego che, per intensità, prevalenza, continuità costanza e professionalità, individui la realizzazione di un nucleo di interessi estranei ai doveri d’ufficio. Chiaramente dai casi esposti, vanno escluse le attività occasionalmente esercitate. Tale argomentazione veniva più volte illustrata, puntualizzata e circostanziata dalla Corte dei Conti, sez. C, 21 maggio 1984, n. 1450; Consiglio di Stato sez. V, 16 maggio 1989, n.297; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 3 agosto 1987, n. 1145.

In altre parole è stato disposto e ben delucidato che il provvedimento di perdita dell’impiego si configura nelle ipotesi in cui si verifichi il presupposto di un vero e proprio lavoro o mestiere extra-lavorativo, continuo, professionale e prevalente rispetto al principale e la retribuzione deve essere adeguata tanto da sostituire materialmente in tutto e per tutto quella dell’impiego principale, nonché equa e proporzionata allo stesso.

La giurisprudenza si è mossa nel corso degli anni adeguando le norme alla vita e alle esigenze reali ed attuali. Un’evoluzione.

Era forse possibile, ad esempio, esercitare una prestazione extralavorativa anche per due sole occasioni, talvolta a titolo in parte hobbistico, senza continuità e prevalenza percependo la misera somma di max. euro 50,00 e conquistarsi con questo un provvedimento di perdita dell’impiego? Con la normativa originaria si. Era e sarebbe un evento verosimile. Appare chiaro che qualcosa andasse modificato, rivisto e adeguato con un imponente afflusso di buon senso.

Ma qua si pone un altro imponente interrogativo: IL CAMBIAMENTO.

Il cambiamento in generale, sconvolge la natura, sconvolge l’uomo e il suo essere, lo pone innanzi ad un muro invalicabile davanti al quale molti si fermano. E preferiscono tornare indietro, accontentandosi del “vecchio ma sicuro”. Una concezione logora ma attuale. Il fatto che il tempo abbia adeguato le norme non significa che abbia cambiato le concezioni e una forma mentis fortemente radicata nella concettualità di molti operatori.

L’inclinazione mentale della società attuale e dell’era moderna deve condurre nella direzione di un’evoluzione generazionale, in considerazione del fatto che il singolo salario di un dipendente statale non è spesso sufficiente per un ottimale tenore di vita di una famiglia.
In questo articolo è stato in parte circostanziato il cosiddetto “presupposto di prevalenza”, uno degli elementi essenziali da conoscere nello studio tecnico della “disciplina delle incompatibilità”, uno studio essenziale ed indispensabile per qualsiasi dipendente pubblico che desideri accostarsi all’esercizio di attività extraprofessionali in regola.

Massimiliano Acerra

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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