Nel 1979, quando i sostenitori dell’Ayatollah Khomeini attuarono il colpo di stato in Iran, deponendo lo scià Mohammed Reza Pahlavi ed istaurando il regime islamico che vige tuttora, molti osservatori occidentali accolsero favorevolmente il cambiamento ipotizzando – forse in modo un po’ affrettato – un nuovo corso storico e democratico, che avrebbe potuto anche introdurre una ventata di novità in quell’area geografica politicamente travagliata.

Gli stessi sentimenti entusiastici sembrano accogliere la così detta “primavera araba”, ovverossia un fenomeno complesso ed assolutamente non ancora stabilizzato che s’è espresso attraverso un’ondata di mutamenti politici e sociali che in maniera repentina si sono innescati nella fascia subsahariana, interessando la Tunisia e la Libia, senza trascurare l’Egitto, e per la quale s’è parlato d’un possibile effetto domino che avrebbe coinvolto anche l’Algeria ed il Marocco, estendendosi più ad Est fino in Siria, dove è in corso un’autentica guerra civile sotto gli occhi vigili degli osservatori internazionali.

Tutto ciò è storia recente e mentre in Siria già infuriava la rivolta, le attenzioni internazionali si sono concentrate sullo scenario libico, dove i francesi hanno sollecitato l’opzione militare che ha visto impegnata anche l’Italia per circa sei mesi, prima di poter affermare che il regime di Gheddafi era stato neutralizzato. Oggi, nonostante il cambiamento politico interno e l’uscita di scena del presidente Sarkozy, la Francia torna sul problema asserendo che non è escluso un intervento anche in Siria, ovviamente sotto l’egida dell’ONU, tesi condivisa pure dal Belgio, che, attraverso il suo ministro degli Esteri Didier Reynders, ha invocato l’invio d’una forza multinazionale. Non v’è dubbio che chi appoggi Damasco sia dalla parte sbagliata della storia, come sostengono gli Stati Uniti, ma un’azione militare diretta non sembra nei programmi dei partner europei, Italia inclusa, né degli stessi USA, che attribuiscono l’impossibilità di una svolta militare al veto russo-cinese in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – UNSC –. Alcune ipotesi al vaglio degli esperti riguardano la creazione di “zone di sicurezza”, come quella che dovrebbe essere istituita al confine con la Turchia per evitare l’afflusso di migliaia di profughi, ma il Governo di Ankara, le cui relazioni con la Siria da tempo non sono distese e collaborative, non s’è ancora espresso, contribuendo in tal modo alla generale stagnazione della situazione.

Così, mentre le diplomazie internazionali ricercano la massima coesione e tentano d’individuare forme di pressione risolutive ed efficaci sul regime del presidente Bashar al Assad, in Siria prosegue il conteggio quotidiano delle vittime, oramai attestatosi a circa ottomila unità, mentre l’opinione pubblica s’interroga sulle ragioni che spingono i rivoltosi allo scontro. La situazione è certamente più complessa di quanto appaia ad una prima analisi e le scelte che verranno attuate a livello internazionale non possono prescindere da un’attenta conoscenza e valutazione di tutti i principali aspetti politici, antropologici e sociali che riguardano non solamente la Siria, ma un’intera regione, garantendo un clima stabilizzato nonché l’accesso alle risorse naturali e, soprattutto, alle fonte idriche, che rappresentano una ricchezza irrinunciabile.

Il quadro complessivo non è di facile soluzione ed intorno alla Siria sembra ruotare una moltitudine di interessi ed equilibri, dei quali Bashar al Assad appare pienamente consapevole, così da agire con determinazione nella certezza che i tempi gli sono ancora favorevoli, aldilà degli ultimatum e delle prese di posizione internazionali sempre più critiche verso il suo operato. Il problema, però, non è rappresentato solamente dalla condizione interna della Siria e dallo scontro in atto, indipendentemente dalla crudeltà che si registra, bensì da un insieme di fattori che compongo un mosaico di assetti incerti e possibilità di sopravvivenza per le varie componenti etniche che popolano quella terra, dove s’estende la longa manus del regime iraniano ed intorno alla quale sono tornati a contrapporsi i blocchi politici, come al tempo della guerra fredda. Per tali ragioni, il dibattito e le mediazioni tra le parti sembrano spesso inadeguati a fronteggiare le emergenze, tanto che ancora si è alla ricerca di soluzioni praticabili ad esempio per stabilire un armistizio temporale, che consenta l’accesso nel paese agli aiuti umanitari. Non è nemmeno stata accolta la proposta di creare un corridoio umanitario per assistere la gran parte della popolazione civile, poiché un accordo in tal senso assumerebbe un significato politico importante – come sostiene il professor Claude Bruderlein, della Facoltà di Affari Internazionali dell’Harvard Kennedy School – in quanto necessiterebbe dello schieramento d’una missione di peacekeeping, che potrebbe apparire prodromica ad un intervento internazionale. I contendenti, pertanto, non sembrano realmente disponibili ad interventi umanitari, che potrebbero anche portare all’accertamento di crimini e violazioni dei diritti umani, aspetti di cui si tornerà a parlare inevitabilmente alla cessazione del conflitto. Le trattative, come accennato, sono difficoltose e rallentate almeno da due aspetti formali: l’ONU dovrebbe negoziare con soggetti d’entrambi gli schieramenti che quasi sicuramente si sono resi responsabili di atti che potrebbero essere catalogati come crimini contro l’umanità; in territorio siriano non sono presenti ONG, in quanto la politica governativa negli ultimi anni non ha favorito la presenza di organizzazioni internazionali o forme analoghe d’associazionismo.

Quanto detto non esaurisce il computo delle questioni irrisolte, che abbracciano invece anche altri aspetti che potrebbero risultare addirittura più intricati. Le relazioni con la vicina Turchia sono difficili da alcuni anni, da quando il Governo di Ankara ha progettato la costruzione d’una serie di dighe lungo il corso dei fiumi Tigri ed Eufrate, che comporterebbero di fatto il controllo delle acque a valle con verosimile riduzione dell’afflusso idrico in Siria e successivamente in Iraq. La popolazione di minoranza d’origine turca, inoltre, risiede nelle zone del centro e del Nord, ma ha riscoperto e mantenuto un intenso legame con il paese d’origine. Le altre etnie sono rappresentate per la maggioranza (90%) da arabi o aramei arabizzati, curdi, circa un 9%, che risiedono a Nord-Est, ed aramei (1%) stanziati ad Ovest. Ognuno ha mantenuto quasi intatto il proprio idioma, talché si parla curdo, armeno, aramaico ed anche circasso, in minima percentuale.

La ragione principale della guerra è possibile comprenderla attraverso l’analisi dei ceppi religiosi, cioè il 74% di sunniti, il 13% seguaci di correnti musulmane druse, insediati soprattutto a Sud, e la minoranza alauita d’origine sciita, che, però, occupa saldamente i vertiti del potere attraverso il comando delle Forze Armate e lo stesso presidente Bashar al Assad.

Nonostante l’assedio interno ed internazionale, la componente alauita non ha intenzione di abdicare dai propri ruoli né dai privilegi finora mantenuti, anche perché sarebbe immediatamente sopraffatta ed emarginata dalle forze sunnite prevalenti. È per tali motivi che il governo iraniano, come noto composto da musulmani sciiti, non cessa di sostenere i fratelli siriani e nel suo intento potrebbe aver allertato anche le milizie di Hezbollaz, l’agguerrito Partito di Dio, stanziali in Libano. Nondimeno anche la Russia, tornata ad esibire il proprio prestigio politico sullo scacchiere globale, s’è posizionata a favore della Siria, anche nella prospettiva di rinverdire il ruolo internazionale nel confronto con la Cina.

Per tutto ciò, un intervento militare internazionale è da ritenersi l’ultima delle opzioni praticabili, in quanto potrebbe innescare una situazione estremamente difficoltosa sotto tutti gli aspetti, con ripercussioni immediate sull’intera regione, sia attraverso l’entrata in scena di altri soggetti, non sempre disposti a seguire pedissequamente le indicazioni superiori, sia attraverso eventuali azioni di natura terroristica che potrebbero colpire in modo indiscriminato ben al difuori dello scenario direttamente interessato.

Maurizio Carboni – Vittorfranco Pisano

Docenti

U.P. UNINTESS – Università Internazionale dio Scienze Sociali

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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