L’intervento americano in Iraq, che ha avuto inizio nella sera del 19 Marzo 2003, si è appena concluso: dopo oltre sette anni di presenza costante e diffusa di truppe combattenti USA sul territorio iracheno, l’operazione militare denominata Iraqi Freedom ed alla quale hanno partecipato numerosi Paesi, fra cui l’Italia, dal 1° Settembre 2010 è uscita di scena e si è trasformata in una nuova operazione, New Dawn, finalizzata all’addestramento e preparazione delle forze di sicurezza irachene da parte di circa 50 mila soldati USA.[1]

Le modalità del ritiro erano state stabilite dal SOFA – lo Status Of Forces Agreement firmato nel 2008 con il governo iracheno dall’Amministrazione dell’allora Presidente George W. Bush e lasciato sostanzialmente invariato dal Presidente Barack Obama.

Nei mesi scorsi, i dubbi circa la possibilità di rimandare ad un secondo momento il ritiro delle truppe da combattimento a causa della difficile situazione della sicurezza nel Paese non hanno impedito al Presidente Obama di ribadire con forza il rispetto dei programmi stabiliti con la fine del ruolo di combattimento degli USA, mantenendo così la promessa elettorale di un ritiro “responsabile” dall’Iraq in tempi brevi.

Ma quale Iraq lasciano gli americani?

La situazione qui non è ancora al 100 per cento – e nemmeno al 90 – sotto controllo. La guerra non finisce e la tensione segue sulla mappa una linea ascendente di quasi mille chilometri. In basso, a sud, il livello della tensione è nullo, cartina bianca; ma mano a mano che si procede verso nord, lungo le province sunnite, la violenza cresce, cartina rossa.

Fino all’ultimo, prima del ritiro, sulla base USA settentrionale di Halijwa piovevano uno o due razzi alla settimana. In Aprile a Kirkuk numerosi soldati statunitensi della Spartan Brigade sono stati uccisi da raffiche sparate dai guerriglieri. A Marzo sono esplose circa venti bombe nella seconda città più grande del Paese, Mosul. I pellegrinaggi sciiti a Baghdad, e nelle città sante di Karbala, Samarra dello scorso Luglio hanno costituito l’innesco che ha fatto esplodere un’ondata di violenza settaria da parte dei miliziani sunniti, causando la morte di oltre 70 persone e il ferimento di altre 250 in pochi giorni. La Zona Verde di Baghdad rimane blindata, con le sue barriere prefabbricate anti-esplosione, i T-Walls. Mentre le forze di sicurezza irachene (le ISF – Iraqi Security Forces) sono colpite quotidianamente.

Per questo Washington ha deciso di non abbassare il numero di forze speciali presenti in Iraq, anche se sarebbero serviti su altri campi di battaglia, ovvero l’Afghanistan. C’era (e c’è) molto lavoro da fare, tra raid ed azioni antiterrorismo. Il Paese è debole e in stato di confusione post-elettorale per il ritardo nella formazione del nuovo governo dopo le elezioni parlamentari del 7 Marzo scorso. E poi c’è quella che gli americani chiamano “AQIZAM”, Al-Qaeda in Iraq and Associated Movements: in primo luogo l’Islamic State of Iraq, un gruppo sunnita affiliato ad al-Qaeda e attivo in Iraq, che ha continuato a rivendicare numerose stragi in attentati suicidi o con autobomba spingendosi fino al “tranquillo” sud, nella città di Bassora.

L’instabilità della politica irachena e la conseguente diminuzione delle capacità governative hanno recentemente aperto la strada ad una recrudescenza della violenza – il mese di Luglio 2010 è stato definito dal Ministero dell’Interno di Baghdad “il mese più cruento dal 2008” – che non è comunque comparabile ai giorni neri del picco dell’insurgency, nel 2006-2007, quando a tre anni dall’inizio dell’operazione Iraqi Freedom il Paese piombò in una guerra civile che ha provocato la morte di in media 95 civili al giorno. Nel 2007, l’allora comandante della Forza Multinazionale in Iraq, Generale David Petraeus, cominciò a mettere a frutto la propria strategia di contro-guerriglia che era stata adottata dall’Amministrazione Bush, conosciuta come “surge”. Uno dei pilastri della strategia americana era stato l’accordo politico con una parte della guerriglia sunnita, per convincerla a schierarsi con gli “ameriki” organizzandosi come forza di autodifesa e a voltare le spalle ai miliziani di al-Qaeda in cambio di un mix di incentivi, tra cui il pagamento diretto degli stipendi. Nelle province sunnite (ovvero quelle centro-settentrionali di Anbar, Ninawa, Salah ad Din, Dyiala e Baghdad), tale sforzo ha dato vita ai combattenti Sahwa (Consigli del Risveglio), milizie locali sunnite che hanno aiutato gli americani a cacciare al-Qaeda e che sono tuttora quasi totalmente integrate nello stato iracheno (mentre fino al Dicembre 2008 erano sul libro paga degli Stati Uniti). Insieme a un investimento massiccio da parte degli USA nella formazione, addestramento ed equipaggiamento delle forze di sicurezza irachene, il supporto delle milizie Sahwa aveva permesso di ottenere un netto miglioramento della sicurezza a partire dal 2008-2009, quando la media delle vittime civili giornaliere si era ridotta del 92 per cento.

Negli ultimi mesi però proprio coloro che avevano reso possibile una svolta vittoriosa nella campagna anti-guerriglia contro al-Qaeda in Iraq, e in generale nell’operazione Iraqi Freedom, hanno cominciato a rientrare nell’organizzazione terroristica, che nonostante la cattura o l’uccisione di numerosi suoi capi, sembra disporre di molto denaro oltre che di aumentate capacità logistiche.

Oggi, molti iracheni riconoscono che la loro libertà dall’oppressione brutale del regime di Saddam Hussein è “made in USA”. Ma c’è anche un rancore diffuso per la morte, la distruzione e la disperazione scatenate dalla guerra guidata dagli Stati Uniti. La stanchezza per i sette anni di occupazione – assieme all’apprensione per il fatto che gli americani se ne stanno andando – sono sentimenti diffusi. In pochi esprimono fede nella democrazia, nei loro leader, o nelle loro stesse capacità di costruire un futuro libero e prospero.

La maggior parte della popolazione civile non ha mai preso sul serio il desiderio dell’America di instaurare una democrazia, per lo più semplicemente perché è un concetto con il quale non hanno familiarità: per molti, il termine democrazia è diventato sinonimo di incompetenza e corruzione, e non sembrano avere idea di quanto la guerra sia costata all’Occidente in termini di vite umane, denaro e problemi politici. O forse, semplicemente, non ne sono interessati.

I peggiori orrori che gli iracheni hanno dovuto affrontare sono – si spera – alle loro spalle. Ma la lista dei problemi da affrontare è ancora lunga, e rimane una ferita aperta la cui responsabilità è attribuita da molti anche proprio a Iraqi Freedom: mancanza di energia elettrica (che nella maggior parte delle zone del Paese non va oltre le due ore quotidiane), di acqua pulita, di assistenza sanitaria adeguata, di infrastrutture in generale, oltre a quotidiani episodi di violenza settaria e di criminalità organizzata.

Dal punto di vista americano, la fine di Iraqi Freedom ha significato soprattutto l’impegno, iniziato da qualche mese, in un enorme sforzo logistico. Come spiega l’Associated Press, molte delle migliaia di uomini e donne che hanno combattuto la guerra in Iraq sono ancora alle prese con inventari ed elenchi da compilare. Gli uffici sul campo che si sono occupati per sette anni di coordinare le attività delle truppe negli ultimi tempi sono stati impegnati in attività strettamente logistiche legate alla chiusura delle basi. Tutto il materiale (decine di milioni di oggetti: dalle cartucce per le stampanti alle armi e munizioni, passando per i mobili, i condizionatori e i generatori di energia elettrica) è stato registrato accuratamente, anche perché non tutte le strumentazioni sono state caricate sui cargo e sulle navi diretti verso gli Stati Uniti. Metà dei veicoli militari utilizzati in Iraq hanno avuto come ultima destinazione l’Afghanistan, insieme ad altri 180mila articoli come armi e componenti elettronici. Parte del materiale ha già raggiunto il nuovo fronte, mentre altri oggetti rimarranno in Iraq a disposizione dell’esercito locale. Circa 400 basi militari sono passate o passeranno sotto il controllo delle forze militari irachene, oppure saranno definitivamente chiuse. Entro la fine di Settembre, gli americani avranno in Iraq soltanto 96 basi attive a fronte delle 505 utilizzate nel Gennaio 2008.

Rimarranno basi fantasma, cariche dei ricordi di migliaia di soldati soprattutto statunitensi e britannici che vi si sono succeduti in turni di 12-15 mesi alla volta. Ma prima della riconsegna, ciascuna base viene sottoposta a “sterilizzazione”, per cancellare il segno della presenza statunitense. “Sterilizzare” è il verbo che accompagna i soldati nella lista obbligatoria di 113 punti che devono seguire prima di sgombrare. In gergo indica il procedimento che trasforma una base americana carica di storia recente in un’installazione spoglia e neutra, pronta per essere ceduta all’esercito dello stesso Paese in cui sono morti oltre quattromila commilitoni.

Così, i murales fatti in onore dei caduti durante gli anni di Iraqi Freedom vengono lavati via, insieme al pensiero che di rado abbandonava i militari al fronte: di qui non ce ne andremo mai.

NOTA: i dati utilizzati provengono principalmente dall’Iraqi Index eleborato dalla Brookings Institution di Washington, http://www.brookings.edu/saban/iraq-index.aspx del 9 Agosto 2010

Altre fonti utilizzate sono: Jane’s Intelligence Review – Terrorism and Insurgency Centre

http://jtic.janes.com/JDIC/JTIC/eventsIraq e il sito ufficiale delle forze USA in Iraq http://www.usf-iraq.com/

[1] Nel 2007, i soldati statunitensi presenti in Iraq erano circa 175 mila, ridotti gradualmente a 95 mila unità fino al 31 Agosto 2010.

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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