Sono il direttore scientifico dell’ICAA, Associazione di volontariato e ricerca scientifica una cui sezione specializzata (l’equipe antistalking ICAA) dal 2004 offre gratuitamente, a persone vittime di persecuzioni, dei consigli legali e psico-comportamentali.Parallelamente, sempre in forma gratuita, eroga corsi di formazione a professionisti e operatori che intendono operare, in questo ambito, nel settore no-profit. In questi anni ho avuto modo di assistere donne che stavano subendo stalking e altre forme di violenza e alcune di loro ci hanno raccontato di essere in precedenza già “incappate” prima di rivolgersi a noi, in diverse associazioni in difesa della donna. Alcune molto serie e piene di volenterosa solidarietà, altre (fortunatamente una piccola percentuale) a mio avviso più interessate al prestigio e al lucro che all’erogazione di una reale assistenza a persone in difficoltà.

Non so se si tratta di una casualità ma molto spesso le associazioni che nei racconti delle donne vengono descritte come più accoglienti e utili sono quelle con minori risorse economiche, senza finanziamenti pubblici e privati e dove le volontarie offrono quello che hanno per aiutare la gente. Mi riferisco, ad esempio, all’associazione Modem presieduta da Marzia Schenetti, all’associazione Donne per la sicurezza presieduta da Barbara Cerusico e a molte altre organizzazioni antiviolenza con cui a volte collaboro, dove i responsabili arrivano addirittura ad ospitare a casa loro le donne che fuggono dalla violenza domestica, dove le volontarie non prendono alcun rimborso e dove la sede dell’associazione viene pagata di tasca propria dai suoi soci, oppure è addirittura a casa di uno dei soci.

Il ruolo fondamentale delle associazioni in difesa della donna

Sulla tematica stalking e violenze sulle donne occorre riconoscere una certa inerzia istituzionale legata in parte alla scarse risorse destinate alle forze di polizia che hanno attualmente serie difficoltà ad offrire un servizio di ascolto del cittadino che vada al di la della mera ricezione delle denunce. Va da se che in casi intricati e psicologicamente complessi, quali appunto quelli che riguardano la violenza sulle donne, spesso gli uffici di polizia vanno in affanno. In quest’ottica l’azione delle associazioni di volontariato (serie e preparate) Appare utilissima, sia nella fase dell’accoglienza che nella fase di assistenza nella preparazione di eventuali interventi legali. Sappiamo che molte donne hanno ad esempio un comportamento altalenante, sono intimidite (e spesso hanno anche infondati sensi di colpa), e sono combattute dalla scelta se continuare a prendere le botte o se affrontare un periodo di difficoltà nell’auto-sostentamento loro e dei loro figli. Insomma una situazione dove l’aiuto di persone disposte ad accogliere e a supportare psicologicamente appare utilissima. Che poi coloro che svolgono questa azione di assistenza nei confronti delle donne debbano essere sempre e necessariamente altre donne permettetemi di avanzare dei dubbi. A mio avviso, gli uomini che riescono a prendere consapevolezza della prepotenza del loro genere nei confronti delle donne avvertono un certo imbarazzo di fondo e questo può essere una spinta verso un atteggiamento di particolare accoglienza.

Volontariato non deve voler dire scarsa professionalità

Il volontariato in questo delicato settore, che viene offerto a “materiale umano” (e oltretutto in situazione di difficoltà), anche se non prevede un corrispettivo per gli operatori, deve essere svolto con la massima professionalità per non incrementare i rischi di una “vittimizzazione secondaria” che vuol dire in pratica fare ancora più danni. Per evitare ciò, ad esempio, sarebbe opportuno che ogni associazione che si occupa di violenza sulle donne e stalking, avesse in organico uno psicologo con almeno 4-5 anni di esperienza che si occupasse di tutti i primi colloqui (essendo presente) e che poi seguisse con la sua supervisione l’attività di eventuali volontari non-psicologi. E il curriculum del professionista, in formato europeo, (con indicato il numero delle ore dei corsi frequentati) dovrebbe essere disponibile e liberamente consultabile sul sito web dell’associazione. Questa è una mia opinione personale che potrebbe essere supportata anche dall’Università attraverso l’invio di giovani psicologi a svolgere il loro tirocinio presso associazioni meritorie. A tal proposito è importante ricordare che per svolgere il tirocinio i giovani psicologi devono essere seguiti da un tutor (Psicologo con almeno 5 anni di iscrizione all’Albo e già operante in modo stabile nella struttura ospitante).

Volontariato non vuol dire uno spazio per reperire clienti a pagamento

Sempre dal racconto di alcune donne che si sono rivolte alla nostra equipe di ascolto, è emersa l’abitudine di alcuni professionisti di operare saltuariamente (raramente) in associazioni no-profit (anche molto blasonate) per poi incontrare le vittime di violenza che si rivolgono alla struttura di volontariato e offrire loro delle attività di consulenza psicologica o legale (spesso una perizia nel processo) facendosi pagare profumatamente migliaia di euro. Secondo il mio modesto avviso, questo comportamento, che dovrebbe essere vietato per legge, è qualcosa di veramente disgustoso, una sorta di sciacallaggio sulle donne in difficoltà che però sembra essere abbastanza diffuso.

Volontariato sociale o azienda mascherata?

In questi anni ho avuto modo di conoscere associazioni che aiutano veramente le donne e lo fanno con risorse economiche pressoché inesistenti. Collaboro con alcune di loro offrendo consulenza psicologica e criminologica per i casi che mi sottopongono. Associazioni che hanno dei conti correnti in banca con poche centinaia di euro ma che grazie alla buona volontà delle loro associate riescono ad offrire un contributo fattivo alle donne che chiedono loro aiuto. Lo fanno con il cuore. Non chiedono neanche di avere rimborsi spese per la benzina. Ho visto le volontarie di queste associazioni ospitare nella loro casa delle donne costrette a fuggire da uomini violenti. Ma è sempre così? Qualche tempo fa espressi pubblicamente l’opinione che le associazioni di volontariato dovrebbero rendere pubblico su internet il loro bilancio anche per i non soci. Soprattutto se tali associazioni ottengono finanziamenti pubblici o da parte di fondazioni e aziende. L’associazione ICAA a cui appartengo, con circa 2000 euro in banca e più di 6000 soci già lo fa da circa 10 anni. Alcuni centri anti violenza e associazioni con moltissime volontarie che conosco personalmente hanno situazioni anche peggiori, con la sede sociale presso l’abitazione del presidente e serie difficoltà quotidiane per andare avanti. E immagino non avrebbero difficoltà a rendere pubblico il loro bilancio. Occuperebbe a mala pena un paio di righe di testo sul loro sito. Ma non è così per tutte.

Le donne che si rivolgono a un’associazione di tutela devono subito denunciare colui che agisce violenza nei loro confronti?

Che le donne maltrattate abbiano riluttanza a sporgere denuncia è una cosa oramai ampiamente dimostrata. Il numero oscuro (il sommerso) in questo genere di reato è elevatissimo e una delle funzioni primarie delle associazioni di difesa delle donne è proprio quella di convincere le vittime a pubblicizzare la violenza subita attraverso una denuncia, unica strada civile per uscire dal loop della violenza. Indurre una donna a sporgere denuncia è però a mio avviso una cosa che necessita di grande responsabilità e competenza giuridica. Una denuncia infatti comporta poi un processo dove i giudici valutano le prove e non la solidarietà e la buona volontà. Se le prove non ci sono la vittima subisce un ulteriore danno e solitamente si prende una contro-denuncia per calunnia (e se ritorna a casa anche ulteriori violenze). Ritengo pertanto che uno dei ruoli importanti delle associazioni di tutela della donna sia viceversa quello di convincere la vittima a ritardare (un pochino) la presentazione della denuncia e nel frattempo insegnarle ad acquisire più prove possibili che reggano poi al dibattimento in aula. Questa cosa che può apparire per certi versi cinica e per altri scontata, in realtà non lo è. Molte volontarie di associazioni in difesa della donna sembrano interpretare il giusto motto “se subisci una violenza, denuncia” con una maledetta fretta. Recentemente mi sono occupato di un caso di stupro ai danni di una minorenne dove fortunatamente la vittima ha avuto la prontezza di spirito di fotografarsi con il telefonino alcuni lividi ed escoriazioni scaturite dalla violenza. Questa prova, probabilmente, sarà l’unica cosa che consentirà a questa giovane vittima di ottenere giustizia. Voglio dire che un racconto di violenze subite rimane un racconto (fatto di parole) e se il racconto non è supportato da prove rimarrà probabilmente solo un racconto. Stessa cosa per lo stalking. Conservare mail ed sms (che spesso la vittima cancella per rabbia dal proprio telefono) è un elemento fondamentale per poter dimostrare la persecuzione subita. Riuscire a video registrare (con strumenti elettronici che oramai si trovano a poche decine di euro) la violenza psicologica subita o la presenza del molestatore sotto casa sono degli elementi fondamentali per convincere il Pubblico Ministero ad attivare un ipotetico processo. E queste sono le strategie che insegno nei corsi gratuiti per volontari e che a mio avviso non sono una competenza esclusivamente “sbirresca” come qualcuno mi ha contestato ma rientrano a tutti gli effetti nelle famose ‘indagini difensive” introdotte in Italia da anni (ma pochissimo praticate) nel nuovo processo penale.

Quando la tutela della donna diviene una battaglia tra i sessi

Una ultima considerazione sul problema della tutela della donna riguarda l’elevato numero di false denunce utilizzate come strategia nelle cause di separazione conflittuali. Le donne che segnalano situazioni di stalking o di violenza domestica inesistenti, come strategia per ottenere l’affidamento dei figli o come “vantaggio” da mettere sul piatto della bilancia nella richiesta di alimenti, gettano un’ombra sulla credibilità di tutte coloro (la maggioranza) che invece la violenza l’hanno subita davvero e contribuiscono a generare nei giudici quella diffidenza responsabile a mio avviso della maggior parte delle archiviazioni dei procedimenti per violenza domestica e stalking. Come possa una donna sfruttare una simile piaga sociale per vantaggi personali è una cosa che si fa difficoltà a comprendere. Resta il fatto che anche le associazioni che tutelano le donne (quelle serie) sono costrette ad attivare una sorta di “filtro” quando ricevono una nuova segnalazione, per capire se la presunta vittima in realtà sta cercando di strumentalizzarle.

Prof. Marco Strano

16 Novembre 2012

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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