Paolo Sabbatini Atlasorbis ha incontrato il Dott. Paolo Sabbatini, Dirigente dell’Area Promozione Culturale alla Farnesina

Dott. Sabbatini come ha avuto inizio la Sua passione per l’importante attività che svolge al MAE?
Dopo un percorso universitario nel Collegio di eccellenza “Lamaro-Pozzani” a Roma, e la Laurea in scienze politiche (1979), sono diventato Funzionario dell’ONU, e assegnato all’Ufficio delle Nazioni Unite a Rabat, Marocco.
Mi occupavo di progetti di sviluppo. Si operava a largo raggio, con una prevalenza di opere sociali o educative: si trattava di costruzioni di scuole o di miglioramento delle condizioni di vita delle comunità rurali, alfabetizzazione e anche di altre opere civili. Il Marocco è stato la mia scuola e la mia palestra: mi sono subito appassionato al lavoro, ho avuto le prime soddisfazioni, e vedere che i progetti si realizzavano – sia pure con grande impegno – mi dava l’entusiasmo per fare sempre di più.

Dopo il Marocco sono stato assegnato alla Cina, e in Cina sono andato nel 1985. Si trattava di un periodo pionieristico, mi sono buttato a corpo morto nello studio del cinese, nell’amicizia con i cinesi: questo mi è servito e ha fatto un po’ da leitmotiv per tutta la mia formazione professionale. Sono stato in Cina 3 anni, fino al 1988, ma poiché mia moglie mi aveva nel frattempo raggiunto come Console all’Ambasciata d’Italia ho continuato a frequentare la Cina anche dopo il mio mandato, fino al 1991. La mia esperienza, diciamo “cinese”, è stata assolutamente fondamentale e probante perché poi nel 2006 io fossi assegnato, questa volta per conto del Ministero degli Esteri, ad aprire e a dirigere l’Istituto Italiano di Cultura a Shanghai.

Considerata la grande esperienza maturata all’estero qual è stata quella che ricorda con maggiore entusiasmo?

Il primo lavoro è un po’ come il primo amore… e fin dall’inizio mi sono posto la prospettiva di essere onusiano (come si definiva allora) restando “al servizio” dell’Italia. Ciò è stato fin dai tempi del Marocco, che è stato “galeotto” per me perché lì ho conosciuto mia moglie: quindi questo mio “doppio cappello” non era solo teorico ma anche reale e pratico. Senza avere alcun conflitto di competenza con le Nazioni Unite, poiché l’Italia è un membro molto importante dell’ONU (lo era e lo è tuttora), io ho cercato di contemperare quelle che potevano essere le prospettive delle Nazioni Unite con un’attività di collegamento col governo italiano: quando si trattava dei programmi, la mia raccomandazione e il parere di competenza su quella che potesse essere un’aggiunta italiana a dei progetti già di successo o che si sarebbero avviati, sono stati determinanti poi per l’ottenimento del finanziamento italiano. Io posso dire di aver avuto la fortuna di accentrare in me una serie di opportunità che poi con enorme entusiasmo (lo stesso che caratterizza la mia attuale missione a 58 anni), ho portato avanti così. Di fatto queste due prospettive, l’italiana e l’onusiana, sono state sempre presenti, con un po’ di diplomatico equilibrismo. Era soprattutto l’Italia che interveniva con i finanziamenti sui programmi dell’Onu, e non il contrario chiaramente. All’epoca in cui la cooperazione andava fortissimo questo dava delle indicazioni di successo che poi si sono tramutate in programmi che sono andati molto bene e alcuni dei quali esistono tuttora, soprattutto in alcuni paesi dell’America Latina, ma anche in Cina. Parlo di programmi medici, infatti all’epoca in cui cominciò la cooperazione fra l’Italia e la Cina si parlava soprattutto di progetti in campo medico.

Poi, sempre per motivi familiari, feci una prima “scappata” al Ministero degli Esteri italiano, nel senso che mia moglie rientrava in Italia e quindi io trovai la maniera di conservare l’unità familiare: feci un concorso al Ministero degli Esteri ed entrai nella cooperazione italiana. Questa volta fu la parte italiana a guadagnare, nel senso che la mia esperienza alle Nazioni Unite era stata molto buona ed ebbi un riconoscimento di questo. Rimasi nella cooperazione fino al 1993, mi occupavo di progetti di sviluppo soprattutto in America Latina ma anche in Cina e in Cambogia. Nel 1993 il Direttore Generale del Personale dell’UNICEF fece un giro in Italia, parte di un giro in Europa in cui faceva il “talent scout”, per cercare quei funzionari nazionali dei grandi Paesi membri delle Nazioni Unite che potessero partecipare a un rinnovamento dello staff dell’UNICEF. Feci anche lì un esame e lasciai poi la cooperazione italiana per entrare all’UNICEF in un posto molto importante: ero Capo delle Operazioni in Pakistan e in Afghanistan, facevo la spola tra i due Paesi. In Pakistan sono rimasto 4 anni e tutto il bagaglio che avevo accumulato mi servì per fare delle campagne straordinarie, molto importanti, di alfabetizzazione soprattutto delle donne e delle ragazze di età scolare nelle zone rurali.

Sappiamo che Lei ha prestato servizio anche in molte zone di guerra. Come si attua questo passaggio da funzionario per dirimere i conflitti a profondo studioso delle culture dei popoli ?

Dopo il Pakistan ho seguito il mio percorso e ho ricominciato a fare missioni per la Cooperazione italiana e per le Nazioni Unite e nel 2001 sono diventato Coordinatore di una “galassia” della cooperazione internazionale: una INGO (International Non-Governmental Organization) dal nome World Vision, un’organizzazione confessionale, ecumenica, finanziata dalle chiese protestanti americane. L’11 settembre, dopo quello che successe, io fui inviato da World Vision in Pakistan per occuparmi del coordinamento degli aiuti delle organizzazioni non governative, e sono rimasto lì un anno, con frequenti contatti e in coordinamento con l’Afghanistan. Era un anno di guerra e questo è rimasto molto forte nel mio cuore. Ho potuto anche vedere quali sono le dinamiche di assegnazione delle varie zone di influenza anche nei settori della cooperazione e dell’aiuto, non solo su base geografica ma anche su base settoriale.

Visto il mio successo Afghanistan, World Vision mi inviò poi in Iraq, allo scoppiare della guerra. Allora, con base a Cipro, mi occupai dello stesso argomento. Dopo un anno di Iraq, con grande impegno e anche con grandi difficoltà, ho voluto aggiungere un’altra esperienza alla mia attività professionale: tutto quello che avevo fatto nel settore dell’educazione, della preparazione dei progetti, dell’ispezione dei progetti di sviluppo, l’ho messo al servizio della cultura italiana. Infatti con un atto grande coraggio personale, ho rifatto (a 47 anni) un altro concorso al Ministero degli Esteri, il cosiddetto “concorso culturale” nel 2002.

Sono stato fortunato, ho ricevuto un’educazione molto liberale e al tempo stesso molto appassionata. Non ho complessi, in tutta la mia vita sono stato guidato da questo entusiasmo e da questa ricerca del nuovo e delle nuove avventure, del bello che ogni situazione può offrire.

Ho trascorso i rigorosi due anni a Roma, come ogni beginner. Bisogna avere un po’ d’incoscienza, ma senza incoscienza nella vita non si fa nulla. E ho ricominciato tutto da capo: anche in questo devo dire che il “da capo” di un quarantasettenne non è il “da capo” di un ventisettenne. Mi è andata bene, perché dopo soli due anni sono stato ri-inviato, grazie alla mia esperienza della Cina, a fare il direttore dell’Istituto di Cultura a Shanghai (2006). Ho passato anni di grande impegno perché l’Istituto doveva essere costruito da zero.

Partivo da un nucleo che era l’Ufficio Culturale del Consolato d’Italia, che non era però una struttura autonoma. Ho fatto tesoro dei contatti che già esistevano però la vera sfida è stata tutta la delicata parte dell’instaurazione del bilancio e delle mille tecnicità necessarie per un Istituto, che è una branca del Ministero degli Esteri ma con un suo centro di responsabilità predefinito. Durante quest’esperienza meravigliosa ho avuto molte soddisfazioni: io sono stato l’unico straniero ammesso come Consigliere del Municipio di shanghai; i cinesi mi hanno gratificato con tante altre dimostrazioni di affetto, per cui l’esperienza di Shanghai è stata molto importante.

Dopo Shanghai sono andato a Praga (2011) e anche lì mi sono buttato nel rinnovo delle strutture di questo magnifico Istituto che è uno dei gioielli della rete culturale e anche diplomatica italiana: è un palazzo del Rinascimento assolutamente meraviglioso con un chiostro e una chiesa considerata uno dei capolavori del barocco internazionale. Si trattava di un monumento di grande prestigio che necessitava di notevoli interventi di restauro, che io ho cominciato ad effettuare. Al contempo ho cominciato a promuovere e incitare i corsi di lingua, coi proventi dei quali si regge molta parte degli istituti di cultura italiana all’estero. In un anno posso affermare di aver fatto fiorire questo Istituto.

Nel giugno del 2012 mi sono rimesso un’altra volta in discussione, è stato bandito il concorso per dirigente di Stato e, con le esperienze che avevo, mi sono rimesso a studiare e ho rifatto questo concorso, molto impegnativo. Non ho avuto un solo giorno di vacanza, ora sono dirigente dell’area della promozione culturale alla Farnesina dal Dicembre 2012. In una decina d’anni ho riguadagnato lo status che avevo quando stavo alle nazioni unite, nel posto apicale. Forse una vita così errabonda e avventurosa può interessare perché riassume il motto latino nihil difficile volenti.

Dottore molti giovani italiani vorrebbero intraprendere la carriera diplomatica, pur avendo raggiunto un’età over 40. Che cosa spinge un uomo come Lei a realizzare nuove imprese?

L’importante è Il metodo, l’entusiasmo per tutto: corsi di economia, di lingue, la frequentazione di persone importanti sono aspetti fondamentali del mio mestiere: abituarsi a vedere ministri degli esteri, primi ministri, altri importanti personaggi, crea una familiarità che ti fa osare la tua ambizione. Osare di ambire. Certamente se un germe di ambizione nel cuore non c’è, non si farà mai carriera, ma certo questa metodologia di vedere l’aspetto economico, di vedere l’importanza dello studio delle lingue, di cominciare a frequentare le persone che detengono il potere e iniziare a vedere quali sono i tranelli e i corridoi della compagine governativa, è fondamentale. Devo dire che di questa miscela, che si è dimostrata efficace, fa parte anche l’educazione ricevuta a casa, di non indietreggiare davanti alle difficoltà. Io ho ricevuto anche un’educazione anche profondamente religiosa e questo in situazione di guerra o nelle situazioni in cui inevitabilmente c’è un grosso stress, mi ha aiutato molto e mi aiuta tuttora.

Quando ero a Praga ho ottenuto di essere presidente dell’EUNIC: è la rete degli addetti culturali dell’unione Europea. Ogni Paese porta le sue esperienze all’interno di questo network, di questa rete di esperti. Io credo che si debba prestare sempre occhio e orecchio a quello che succede non solo nel proprio Paese ma nei Paesi vicini e oggi l’Europa è grande motore di ogni iniziativa. Molti investimenti sono nel settore della cultura, che rappresenta una grande risorsa dell’Europa e su cui l’Europa sta investendo molto.

Secondo Lei quali sono gli elementi distintivi che deve possedere il “buon diplomatico” : l’elevazione spirituale, la cultura e il savoir faire?

La dimensione spirituale è fondamentale. La mia religione è quella di René Guénon, cioè una religione ecumenica e molto aperta, altrimenti non avrei avuto la possibilità di trovarmi a mio agio nella moschea come nel tempio buddista, nella chiesa protestante come naturalmente in seno alla chiesa cattolica. René Guénon è stata la grande scoperta dei miei anni universitari. Ovviamente la cultura è base essenziale, non come accumulo quantitativo di informazioni, ma come umiltà e disponibilità ad accogliere la cultura altrui. Questa a mio avviso è la dote essenziale, da cui deriva anche il “savoir faire”.

Poi ovviamente occorre avere la capacità, diciamo alchemica, di trasformare il piombo delle contrarietà quotidiane e contingenti nell’oro della serenità. Occorre sapere risolvere i problemi in nome dell’amicizia e dell’empatia.

Nelle situazioni più difficili i veri amici vengono in aiuto. Questa considerazione sembra scontata ma la mia esperienza dimostra che tutto sommato i “veri amici” si possono trovare. Cito qui volentieri, a chiusura di questa intervista, le persone che mi hanno accompagnato nel mio percorso. La mia famiglia ovviamente, ma anche cari, insostituibili amici, paladini dell’italianità all’estero, come il caro Carlo Scialdone in Cina, fratello del vostro bravo collega Ugo Scialdone della Polizia di Roma. Carlo è una risorsa efficace con la sua intraprendenza tutta “tutta campana”: la diplomazia, in fondo, è anche saper valorizzare l’entusiasmo e i talenti degli altri!

 

Dott. Fabrizio Locurcio

16/09/2013

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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