Era il lontano 1972, quando Francesco Guccini, sensibile cantautore che con le sue note ha riscaldato i cuori di almeno tre generazioni d’italiani, attraverso le parole dell’intramontabile ballata intitolata “la locomotiva” ha descritto le gesta dell’anarchico Pietro Rigosi, ferroviere-fuochista che il 20 luglio del 1893 s’impadronì d’una locomotiva nei pressi della stazione ferroviaria di Poggio Renatico, con l’intento presumibile di dirigersi verso Bologna e distruggere un “treno di lusso”, che vedeva transitare ogni giorno.
L’azione non si concluse secondo gli intenti, perché il personale tecnico riuscì a dirottare la locomotiva su un binario morto, dove si schiantò alla velocità di ben cinquanta chilometri l’ora, apprezzabile per quell’epoca. Rigosi fu sbalzato violentemente a terra ed a seguito dei traumi gli venne amputata una gamba nonché rimase sfigurato. Le cronache non narrano di provvedimenti penali, ma solamente di sospensione dall’attività, mentre le cause reali dell’atto rimasero oscure, o così si volle.

Oggigiorno, il testimone ideale di quel gesto individuale, tipicamente anarchico, è stato ripreso dal numeroso popolo dei NO TAV, che da anni s’oppone alla realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità Lione-Torino. Tanto è il clamore che ruota intorno alle loro imprese, spesso violente ed improntate alla guerriglia, che il significato di TAV – acronimo di Treno ad Alta Velocità – e del progetto infrastrutturale che l’accompagna è passato in secondo piano, perché in Italia chi grida più forte riesce a far sentire le proprie ragioni. Così, l’esistenza del progetto TAV è noto più per il movimento di protesta, che per l’ammodernamento che è destinato ad apportare in materia di trasporto merci e persone.

La rete ad alta velocità, infatti, è in forte espansione in quasi tutto il mondo e l’Europa ha da tempo affrontato tale sfida, tanto che il 60% delle linee ferroviarie AV si snoda proprio sul vecchio continente. Ciò richiede un importante implemento infrastrutturale, nuove rotabili, sistemi di segnalamento adeguati alle future esigenze, ricerca ed applicazione di tecnologie, telecomunicazioni e controllo, realizzazione di moderni convogli ferroviari, continua attività manutentiva, tutti aspetti che potremmo facilmente sintetizzare con il termine sviluppo. Per quanto ci compete più da vicino, il progetto della Lione-Torino, anche detto NLTL – Nuova Linea Torino Lione – , riguarda la realizzazione d’una linea ferroviaria internazionale rivolta al trasporto di passeggeri e merci, organica ad un piano di lavoro ben più ampio definito “Progetto Prioritario 6”, che dovrà snodarsi lungo la direttrice Lione-Trieste-Budapest, per poi raggiungere il confine ucraino, secondo una pianificata ambizione transeuropea. Con uno sguardo alla carta geografica, si comprende come non si tratti di cosa da poco e che il segmento incriminato dai nostrani NO TAV sia essenziale per la conclusione del progetto globale, che attraversa interamente l’Italia settentrionale, integrandosi con tratte già esistenti sul nostro territorio, ma senza dubbio obsolete.

Fin qui gli aspetti che potremmo definire istituzionali, ovverosia gli investimenti economici, l’adeguamento di linee ferroviarie che risalgono agli anni ’50 e ’70 del secolo scorso, la realizzazione di nuove gallerie, la creazione posti di lavoro e quanto altro sia funzionale al programma ed agli interessi nazionali, specialmente in una fase di crisi recessiva così accentuata.

Dall’altra parte non solamente le grida di protesta e l’enunciazione di motivazioni critiche, ma il costante innalzamento dei livelli di scontro, con blocchi improvvisi della circolazione autostradale, danneggiamenti ed aggressioni, assalti ai cantieri, guerriglia organizzata nei boschi, blitz notturni pianificati con strategie paramilitari, minacce, petardi e violenze d’ogni tipo. Eppure, nonostante tutto ciò, il movimento NO TAV riesce a conquistare simpatie e ad imporsi come un possibile interlocutore politico, osservato con attenzione sia da singoli politicanti di professione, sia dagli schieramenti più o meno interessati a conquistarne il feeling elettorale.

Oggigiorno, i NO TAV rappresentano un variegato movimento di protesta che negli ultimi vent’anni s’è irrobustito ed è riuscito ad ottenere i consensi di gruppi di cittadini accomunatisi nella critica alla realizzazione delle infrastrutture richieste dalla nuova concezione del traffico ferroviario, più veloce e dinamico. I temi di fondo, cioè quelli sbandierati inizialmente senza ricorrere alla violenza, mirano a contestare la spesa pubblica e gli investimenti stanziati dal Governo per realizzare lo sforzo di competenza italiano, l’asserito impatto ambientale ed i danni alla salute umana nei luoghi interessati dalle costruzioni. Però, se si osserva il movimento con maggiore attenzione, con una sorta di lente d’ingrandimento, si capisce che rappresenti l’unica voce concreta della sinistra estrema nonché di quell’area che troppo spesso soffia sul fuoco per mantenersi viva e sviluppare linee di dialogo con i più intransigenti, strizzando l’occhio a nuove forme d’opposizione e resistenza.

Il cuore della protesta nazionale pulsa in Val di Susa, dove s’incrociano ex estremisti degli anni ’70 ed ’80 del 1900, qualche reduce del terrorismo casalingo, nostalgici dei tumulti di piazza, black bloc dell’ultima ora ed anarchici alla ricerca di nuovi obiettivi da contestare, sinceri sostenitori dell’integrità ambientale, valligiani attaccati alle tradizioni ed al loro territorio. In tale coacervo anagrafico, d’identità politiche e sentimenti ribellisti, non mancano espressioni d’autentica obiezione pacifica, così la Val di Susa sembra una striscia di Gaza in sedicesimo, con una popolazione perlopiù schierata apertamente contro il Governo ed i suoi progetti infrastrutturali, rimasti invariati nonostante gli avvicendamenti al vertice.

In tale bailamme politica, tra grida e spinte eversive, alcuni elementi essenziali per l’analisi sembrano sfuggire all’attenzione: per esempio, come mai dopo un iniziale avvio pseudo negoziale, sia prevalsa l’anima intransigente del movimento, quella più violenta ed intollerante. Peraltro, è difficile immaginare una popolazione disposta a preferire la violenza al dialogo, a tollerare impennate guerrigliere anche se tra Chiomonte, Caprie, il valico del Moncenisio, Bussoleno, Burgone, Chivasso e tutte le altre località investite dalla protesta sembra d’assistere ad una sintonia partigiana e ad un afflato tra tutte le anime dell’antagonismo NO TAV. Infatti, il senso di rifiuto è molto diffuso ed ha fatto presa anche in ambienti cattolici, o tra coloro che certamente preferiscono non menare le mani.

La zona, bella ed incastonata tra monti e scenari mozzafiato, sembra affrontare una missione che travalica le vette e disperde l’eco in ogni dove, apparentemente incurante di poter essere strumentalizzata e divenire così la punta più avanzata d’un antagonismo d’altri tempi, quando dalla valle emersero segnali preoccupanti, incarnati da terroristi nostrani avvicinatisi a Prima Linea ed alla sua galassia in armi.

È questo, infatti, il rischio più concreto: tutta l’impalcatura ambientalista in secondo piano, sopraffatta dal ribellismo anarchico e dalle strategie di quanti spingono sull’acceleratore della rivolta. Da tale punto d’osservazione, la vicenda perde il fascino del trasversalismo che lega la gran parte degli attori coinvolti, indipendentemente dalle ideologie originarie e dalle scelte esistenziali, mentre si presenta come un focolaio di insurrezione emotiva, una palestra di guerriglia, solo in apparenza più qualificata delle rivolte cui assistiamo negli stadi di calcio.

Le politiche istituzionali sembrano corrette, anche se la comunicazione a volte difetta e non valorizza adeguatamente gli sforzi volti a sviluppare forme di dialogo e confronto civile tra le parti. Su un terreno così impervio, le scelte hanno riguardato sia l’inevitabile attività di contenimento e repressione svolta dalle Forze dell’Ordine, sia i tentativi di dialogo, che, se ben condotti, potrebbero contribuire a depotenziare la minaccia antagonista, rendendo nel contempo più chiari e percepibili i vantaggi collettivi derivanti da un investimento infrastrutturale che guarda al futuro.

È, infatti, fin troppo evidente che il progetto ferroviario si realizzerà nonostante le grida, gli assalti ed i sabotaggi, tanto che prima o poi un nuovo e più efficiente treno veloce attraverserà quei luoghi per poi scomparire oltreconfine. Per quel tempo, cosa dobbiamo attenderci? Una nuova stagione di attentati, oppure un emulo di Rigosi, magari con tanto di vessillo sventolante sulla locomotiva vendicativa?

Con il buon senso, ci auguriamo che tutto ciò non avvenga mai più, non tanto per un processo di accettazione/pacificazione che può apparire melenso e funzionale solo ad una parte, ma sulla base di un’autentica comprensione della realtà, senza pregiudizi e prese di posizione partigiane, con lo sguardo rivolto finalmente al futuro.

Maurizio Carboni

Docente

Dipartimento di Scienze Informative per la Sicurezza

U.P. UNINTESS – Università Internazionale di Scienze Sociali

16.08.2013

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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