Alla luce degli ultimi fatti di Londra e Anversa è sempre più evidente come gli atti di terrorismo coinvolgano, oltre ovviamente alle vittime, tutta la popolazione che ne è colpita. Il terrorista ottiene, con la barbarica uccisione di civili innocenti, pochi o molti che siano, il condizionamento inibitorio e la diffusione di un panico cieco e irrazionale, che prolifera in intere comunità. Il coinvolgimento emozionale provoca la stimolazione di ogni forma di paura che risiede nella personalità delle vittime e delle loro comunità di appartenenza. Si amplificano infatti non solo il timore della morte, della debolezza consapevole, ma anche quello intimo e soggettivo che riguarda le catastrofi imminenti, delle malattie, degli incidenti, delle brutte notizie e di molte altre calamità, secondo dinamiche progressive e incontrollate. Si esacerba in modo esponenziale l’intolleranza allo stress e alle frustrazioni. Aumenta la diffidenza e l’ostilità verso tutto ciò che è “altro”, sconosciuto, estraneo al proprio quotidiano. Persone che già avevano per motivi personali un precario equilibrio psicologico, ad esempio dopo l’11 settembre si sono ritrovate a non dormire, a non riuscire a stare da sole, a rifiutare i luoghi affollati e a far un uso massiccio di psicofarmaci sedativi. Tutti questi effetti psicologici e comportamentali rappresentano un’importante componente depieno raggiungimento dell’obiettivo terroristico.

Dal punto di vista dei terroristi, quanto peggiori sono le condizioni dei giovani musulmani nelle nostre società, tanto più forti sono le possibilità di un potenziale reclutamento: secondo un mero meccanicismo la ghettizzazione e la vessazione sociale spingono ad abbracciare ideologie fanatico religiose che assicurano riscatto. Se cade del tutto la prospettiva di una comunicazione trans-culturale e di un’interazione autentica tra etnie e religioni, si riduce al minimo anche la possibilità di un incontro diretto, del “faccia a faccia” con l’altro, di una reciproca comprensione, un processo, questo, che conduce necessariamente alla demonizzazione reciproca dell’ “Altro” come dicevo prima. A questo si aggiunge, come afferma Bauman, la stigmatizzazione di interi gruppi in base a caratteristiche ritenute non sradicabili che li rendono diversi da “noi”, i cosiddetti normali. Ne consegue l’alienazione forzata di persone marchiate come anomale, bandite dal corpus comunitario al quale, più o meno apertamente o nella profondità dei loro cuori, vorrebbero aderire, ma dal quale sono ostracizzate, dopo essere state per di più costrette ad accettare il comune e condiviso verdetto sulla loro inferiorità. Lo stigma può essere anche percepito come un oltraggio immeritato, che richiede e giustifica una vendetta tanto forte da ribaltare il giudizio della società e reimpossessarsi del rispetto rubato attraverso la violenza fanatica e terrorista. Altro aspetto fondamentale è la comunicazione: il militante sa che nel mondo globalizzato la televisione, il quotidiano, la Rete conferiscono legittimità e veridicità a ciò che trasmettono, grazie alla loro funzione icastica, ossia grazie alle immagini. Vedere più volte gli aerei che, dopo l’impatto, esplodono sulle torri, le terribili decapitazioni del califfato, un camion o una macchina che travolgono una folla di passanti moltiplica il potenziale distruttivo strettamente inerente all’atto, ma, al tempo stesso, esacerba il conseguente impatto psicologico sulla popolazione. Non è più solo informazione, ma diventa un dramma emotivo, collettivo, interiore e, al tempo stesso, pubblico: la concretizzazione di ogni paura e il cedimento di qualunque certezza, di ogni stabilità, di quell’equilibrio su cui si basa il vivere civile e democratico.

Questa è una domanda a cui purtroppo non si può dare una risposta univoca o oggettiva. La soluzione attiene alla percezione della sicurezza che si avverte in una comunità. Una percezione che deve essere conferita dalle istituzioni e dai soggetti preposti al governo e alla tutela di una determinata società. In questo momento storico tale percezione è caratterizzata da una sostanziale debolezza e rassegnazione nonostante i proclami a volte troppo retorici e populisti dei governanti, che non rappresentano in nessun modo potenziali soluzioni. Le risposte al problema possono e devono essere molteplici: l’integrazione sociale deve generarsi necessariamente dall’azione politica dei governi, dall’azione di un’ intelligence congiunta e sinergica che metta in campo uno scambio d’informazioni tra tutti i governi internazionali, dal dialogo tra i soggetti in campo e con l’islam moderato, ma anche dalla rappresentazione sociale che realizzano i media di determinate categorie sociali e etniche stimolando quel dialogo e quella convivenza che altrimenti sfocerà sempre in un epilogo drammatico dove il vivere comune, civile e multietnico di uno stato moderno lascerà sempre il posto al conto delle vittime.

foto marino facebook

16/3/2017

Prof. Marino D’Amore

LUDES HEI Foundation Malta campus Lugano

 

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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