Femminicidio e stalking rappresentano due componenti consequenziali e drammaticamente complementari di una realtà fatta di violenza fisica e psicologica, vessazione e annientamento della vittima, violenza che si rivolge alle donne, le ghettizza, imprigionandole in una gabbia sociale che le isola dalle loro reti relazionali, per poi ucciderle.

Lo stalking è un crimine quasi invisibile, subdolo, infame perché si nutre dell’omertà e della paura delle sue vittime, per la maggior parte donne appunto. Il temine stalking deriva dal verbo inglese to stalk (fare la posta, cacciare in appostamento) mutuato dall’attività venatoria e indica un insieme di comportamenti, reiterati ed intrusivi, di sorveglianza, di controllo, di ricerca e contatto nei confronti di una “vittima” che risulta continuamente infastidita, preoccupata e vessata da tali attenzioni, decisamente pressanti e perciò non gradite. Le dinamiche che caratterizzano lo stalking solitamente vengono messe in atto da un ex partner, un ex coniuge o da un amante respinto, i quali, con condotte minacciose e conseguenti molestie, tentano una riconquista secondo modalità morbose e irrazionali. Tali condotte si sostanziano in atteggiamenti compulsivi e persecutori come inviare quotidianamente decine di sms, e-mail, fare molte telefonate con una cadenza tempistica molto precisa, attuare pedinamenti e intrusioni di varia natura nella vita privata, fino a sfociare nell’espressione più drammatica di tali comportamenti, nella loro più feroce esasperazione: l’ uccisione della persona perseguitata: il femminicidio. Il fenomeno è diventato materia di studio negli Usa sin dagli anni ’80, quando si verificarono casi di persecuzione di star da parte di ammiratori ossessivi. In California la prima legge anti-stalking è nata nel 1991, mentre in Italia la prima legge che affrontasse il problema è nata nel 2009. I nuovi mezzi di comunicazione come i cellulari o i social network (soprattutto Facebook) hanno offerto nuove, concrete possibilità di azione agli stalker e dato luogo a una conseguente recrudescenza di questo tipo di reato che si è arricchito così di altre fattispecie che vanno dalla mera “incompetenza sociale”, caratteristica del soggetto che ignora la gravità dei suoi comportamenti prevaricatori, sino al “sadic stalking” ossia il comportamento messo in atto da quelle persone, solitamente con disagio mentale, che pedinano, assillano molestano la vittima per poi ucciderla. Comunemente si ritiene che lo stalker sia una persona che possiede tratti narcisistici ed ossessivi per cui sviluppa un senso di possesso sulla vittima che diventa nel tempo la sua ossessione. Egli non percepisce la gravità dei suoi gesti, si sente in diritto e ritiene opportuno comportarsi così.

A volte si tratta di persone apparentemente normali, che conducono una vita come tante altre e che, a causa di determinate esperienze, si ritrovano a comportarsi in modi che, probabilmente, non avrebbero neppure immaginato. Altre volte si tratta di persone che hanno sempre avuto qualche disagio, e che per varie evenienze circostanziali focalizzano la loro attenzione psicotica su una o più persone.

La reale portata di questa tipologia di reato nel tessuto sociale è emersa solo dopo l’entrata in vigore della legge che lo punisce (in modo particolare se ne occupa L’art. 612 bis del C.P., introdotto con il decreto legge n°11 del 23 febbraio 2009 convertito in Legge n°38 del 23 aprile 2009), abbattendo quel muro di omertà e paura e facendo emergere centinaia di richieste di aiuto. Ora possiamo affermare con fiducia che tutte quelle vittime prima imprigionate in una gabbia di silenzio ora possono combattere con un’arma davvero efficace: quella legge che può assicurare un ritorno ad una vita serena, ad una vita normale.

Il femminicidio, molte volte triste epilogo dello stalking, si riferisce ad omicidi che hanno alla base cause o motivi relativi all’identità di genere. Solitamente la vittima è stata la moglie del suo aguzzino o ha intrattenuto una relazione sentimentale con l’autore del delitto, oppure l’assassino ha agito perché presumeva che la vittima dovesse iniziare o continuare con lui la relazione suddetta, ricevendo invece un netto rifiuto o una brusca interruzione. In lingua inglese il termine femicide o feminicide veniva usato già nel 1801 in Inghilterra per indicare letteralmente e in senso generale l’uccisione di una donna. Il termine, munito poi delle connotazioni che oggi lo arricchiscono, è stato utilizzato dalla criminologa Diana Russell nel 1992, nel libro scritto insieme a Jill Radford Femicide: The Politics of woman killing. La Russell identificò nel femminicidio una categoria criminologica vera e propria che si sostanziava in una violenza estrema e tragicamente definitiva da parte dell’uomo contro la donna in quanto donna, una violenza turpe figlia di pratiche misogine. Il termine è stato ripreso e diffuso da numerosi studi di diritto, sociologia, antropologia, criminologia e reso popolare perché utilizzato negli appelli internazionali lanciati dalle madri delle ragazze uccise a Ciudad Juárez in Messico: “Nuestras Hijas de regreso a casa” è il movimento fondato da Marisela Escobedo Ruiz, uccisa nel gennaio 2010 nel corso della sua protesta per ottenere la verità sulla morte della figlia.

Allo stato attuale in Italia non esiste un osservatorio nazionale sul femminicidio, mentre in altri paesi, come Spagna e Francia, sono operative realtà che monitorano il verificarsi e l’evolversi del fenomeno. I dati vengono raccolti da associazioni e gruppi di donne basandosi esclusivamente sulle notizie diffuse dai mass-media. Tale metodologia fa ipotizzare una forte sottostima del dati in quanto, come è ovvio, solo una parte degli omicidi sono riportati dalla stampa. Ad esempio il blog Bollettino di guerra rendiconta i casi di femminicidio tramite un’analisi quotidiana della cronaca nazionale e anche la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna utilizza la medesima metodologia per estrarre i suoi dati finalizzati alla compilazione della loro tabella annuale che ha contato circa 124 donne uccise nel 2012. Operazioni di monitoraggio, queste, che hanno catalizzato molto attenzione, in tempi relativamente recenti, stimolata dalla visibilità che il fenomeno ha raggiunto a livello mediatico. Infatti appare sempre più frequente che il femminicidio e con esso lo stalking precedentemente citato paghino un prezzo troppo alto al giornalismo televisivo, ma anche cartaceo, in termini di mera spettacolarizzazione a danno di un’informazione mirata e dedicata. Certe forme di televisione del dolore, oggi pericolosamente diffuse, sottendono a dinamiche di progressiva desensibilizzazione da parte dell’audiences che assistono a certi servizi o inchieste incentrate su tali tematiche con lo stesso interesse, trasporto e partecipazione, non sentimentalistica, solidale o semplicemente informativa ma unicamente legata a esigenze di fruizione seriale, rivolto ad un film o ad un programma TV.

Ovviamente tale atteggiamento è consapevolmente catalizzato dal comportamento di certi operatori della comunicazione che schiavi dei numeri e dei feedback del pubblico non esitano ad essere i maggiori artefici di quella spettacolarizzazione e di quella depauperazione di solidarietà e sentimenti che si palesa nella trattazione giornalisticamente di questi fenomeni. Un modus operandi che coinvolge anche coloro che sono vicini alle vittime, come parenti o amici, catapultati nel mondo dello spettacolo, che in cambio di pochi minuti di visibilità smarriscono, in alcuni casi, la concezione del reale valore di una perdita tanto grave e devastante e a volte vanno ad inficiare il segreto d’ufficio e il lavoro degli inquirenti solo e semplicemente per apparire e far conquistare alle trasmissioni che li ospitano qualche punto percentuale di share. Occorre mettere in campo un processo educativo, pedagogico e formativo in questo senso rivolto agli operatori della comunicazione tout court e ai loro fruitori, per abbandonare definitivamente queste squallide forme di voyeurismo mediatico e riportare al centro dell’attenzione il rispetto per la vittima e soddisfare le esigenze di verità e giustizia che ne conseguono.

Dr. Marino D’Amore

01/08/2013

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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