Mentre in Italia la battaglia politica preelettorale si svolge tra tatticismi dell’ultim’ora e tentativi da parte dei partiti di maggiore tradizione per riappropriarsi della scena pubblica, negli Stati Uniti le sorti dei prossimi quattro anni sono state stabilite lo scorso sei novembre dall’affermazione del democratico presidente Barack Obama,

che dovrà rimboccarsi presto le maniche se vuole mantenere elevato il prestigio del suo Paese. I mercati finanziari, infatti, non hanno accolto con particolare entusiasmo la scelta elettorale, non eccessivamente sorprendente, ad onor del vero, e qualche ammonimento è giunto immediatamente da due delle tre principali agenzie mondiali di rating , Moody’s e Ficht, che hanno minacciato il downgrade della tripla A se il problema del così detto fiscal cliff non sarà rapidamente risolto.
Si tratta d’una manovra volta a ridurre il deficit statunitense attraverso una serie d’aumenti delle tasse e tagli alla spesa pubblica, che entreranno in vigore automaticamente alla fine dell’anno in corso in concomitanza con la scadenza degli incentivi fiscali introdotti all’epoca della presidenza Busch e prorogati dallo stesso Obama.

Per il neo rieletto presidente, però, non si tratta di misurarsi solamente con le questioni interne ed uno sguardo attento dovrà essere rivolto agli equilibri internazionali, agli scenari complessi che negli ultimi venticinque anni hanno interessato gli USA, in particolare il medioriente e le tensioni crescenti ed irrisolte tra Iran ed Israele.

È prevedibile, infatti, che il focus della politica estera statunitense, non più gestita dall’ex first lady Hillary Clinton, che ha già da tempo annunciato l’intenzione di ritirarsi ed abbandonare la Segreteria di Stato, si concentrerà proprio su quella macro area geografica, dove l’effervescenza sembra contaminare tutte le nazioni e la questione siriana è solamente uno dei tanti capitoli non conclusisi.

In tale scenario, l’escalation del confronto a distanza Iran-Israele sembra prevalere sulle altre criticità, soprattutto poiché nessuno dei due protagonisti intende fare un passo indietro e perché gli Stati Uniti sono un importante alleato per Israele, che s’attende molto della riconfermata amministrazione Obama, così come è stato per il passato.

Israele finora ha atteso con relativa pazienza, ha frenato il proprio ardore lanciando avvertimenti di tanto in tanto all’avversario iraniano, ma non ha mai smesso di verificare la fattibilità d’una azione cautelativa ai reattori nucleari voluti da Ahmadinejad. Lo scorso 27 settembre, durante il suo intervento all’assemblea generale dell’ONU, il leader israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che nel momento in cui l’Iran raggiungerà il novanta per cento nel processo d’arricchimento dell’uranio, Israele procederà con un attacco preventivo. Secondo le stime dello Stato di David, tale limite dovrebbe essere conseguito non prima di marzo 2013, mentre per l’intelligence statunitense la soglia sarà raggiunta la prossima estate.

Il problema, ovviamente, non ruota intorno ad una manciata di mesi e le dichiarazioni di Netanyahu hanno suonato più come un’anticipazione di ciò che potrà accadere, spostando la verifica con gli USA a dopo le elezioni presidenziali, quindi ad una situazione politica stabilizzata e non più incerta.

Dal canto loro, gli Stati Uniti non potranno rinviare ulteriormente la presa di posizione invocata da Israele, nemmeno a bassa voce, e gli sforzi diplomatici sembrano limitarsi alla ritualità nonché destinati ad inaridirsi sotto le pressioni di quanti, nella terra di David, spingono per la prova di forza. Di quest’idea non sembra essere Uri Saguy, l’ex capo dell’Aman, la struttura dell’intelligence militare israeliana, che ha definito inappropriato un eventuale attacco.

I vertici iraniani, ovviamente, non subiscono passivamente la situazione ed oltre ad una politica diplomatica incentrata su apparenti accelerazioni del dialogo con i mediatori internazionali, improvvisi irrigidimenti e ribadimenti della volontà di proseguire con il progetto nucleare, definito per fini civili, non trascurano gli aspetti militari della questione, tanto che il generale Amir Ali Hajzade, comandante della divisione aerospaziale, ha affermato che da un impegno bellico israeliano potrebbe scatenarsi il terzo conflitto mondiale.

La diplomazia ancora una volta sembra essere in crisi, vincolata tra invocazioni di buona volontà ed attendismi che potrebbero rivelarsi fuori tempo e le stesse Nazioni Unite non riescono a trovare ipotesi di soluzioni plausibili, così come vani sono finora risultati gli sforzi per porre fine al conflitto interno in Siria.

Le prospettive non sembrano affatto rassicuranti, soprattutto perché da una parte l’Iran non accenna a cessare le invettive contro Israele, minacciando di annientarlo, e dall’altra i figli di David non tollereranno l’elevazione del livello della minaccia. Così, le vie d’uscita si riducono e le prospettive d’uno scontro armato non possono trascurare che Israele dispone di potenzialità nucleare bellica e che un confronto con l’Iran mobiliterebbe inevitabilmente le formazioni sciite filoiraniane che premono ai confini stessi d’Israele.

Prof, Maurizio Carboni

Dipartimento di Scienze Informative per la Sicurezza

U.P. UNINTESS – Università Internazionale di Scienze Sociali

12 novembre 2012

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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