Precariato tra passato, presente e futuro. Parliamone con Ferdinando Morabito

Secondo Lei il termine precariato è ancora più ricco di insicurezza rispetto al passato?

In realtà l’etimologia della parola “precario” indica di per sé incertezza e prospettive a breve termine, poiché significa “ottenuto per preghiera” e quindi prevede che una cosa precaria duri per un periodo limitato, vale a dire fino a quando vuole il concedente. Forse non ci si rende conto che trasportare tale concetto nel mondo del lavoro non è benaugurante in partenza, poiché il lavoro dovrebbe garantire una certa serenità a chi lo svolge

. Detto questo, indubbiamente negli ultimi anni il termine precariato è stato associato molto spesso all’universo occupazionale, oserei dire troppo spesso, in maniera così ossessiva da far venir meno tutti i buoni propositi legati al termine flessibilità, che in teoria dovrebbe designare tutta un’altra serie di realtà, esaltando la capacità del lavoratore di ricoprire diverse mansioni e di farsi valere in svariati ambiti con uguale efficienza, laddove fosse necessario, senza però mettere in discussione la continuità del rapporto di lavoro e, di conseguenza, la possibilità di avere diritto ad una retribuzione e quindi ad una vita quantomeno normale. Oggi la precarietà e il precariato rappresentano delle realtà incontrovertibili con cui la stragrande maggioranza dei lavoratori si trova a dover fare i conti, con una serie di effetti che danno quotidianamente vita ad una spirale di problematiche di sempre più difficile risoluzione. L’argomento è più che mai attuale, e nel mio romanzo ho proprio delineato, sin dal titolo, un paradosso basilare: sembra quasi che i cittadini debbano per forza accettare una “Precarietà a tempo indeterminato”, senza limiti di tempo, come se entrare nel mondo del lavoro debba necessariamente significare sottostare a condizioni inimmaginabili fino ad un decennio fa. Retribuzioni al limite dello sfruttamento, garanzie e tutela dei diritti in molti casi pari a zero, impossibilità di costruirsi un futuro: tutto ciò crea un senso di frustrazione e di impotenza che di certo fa male, in quanto avvilisce e scoraggia tante persone, giovani e non. La precarietà, a mio avviso, è un male sociale che colpisce in maniera indiscriminata ogni fascia di età, senza grande rispetto per padri di famiglia o lavoratori con tanti anni di carriera alle spalle. La conseguenza è una sorta di precarietà esistenziale che investe e avvolge la nostra generazione, quella cioè dei giovani (ma non più giovanissimi) che sembrano quasi essersi abituati a non avere alcuna certezza, a vivere senza punti di riferimento: se da una parte questo può portare elementi positivi, come la voglia di non accettare passivamente una vita che deve necessariamente seguire dei cliché imposti, d’altro canto sfocia molte volte in assenza di valori, di ideali e di regole, riflettendosi nell’incapacità di creare rapporti umani stabili, anche in ambito relazionale, sentimentale o di amicizia. È proprio questo l’aspetto che il mio romanzo vuole mettere maggiormente in evidenza.

Ritiene che lo Stato concentri ancora poca attenzione al “fenomeno sociale”?

Beh, quando qualcosa non va bene a volte la prima reazione è sparare a zero e prendersela con chiunque, per cui puntare il dito contro qualcuno è molte volte la prima istintiva reazione che solitamente viene suscitata da una situazione difficile da accettare, soprattutto se percepita come ingiusta. Detto ciò, è innegabile che la realtà attuale presenti difficoltà che non è possibile ignorare o guardare e valutare con superficialità. Il precariato, come dice giustamente lei, è un fenomeno sociale vero, autentico e purtroppo tangibile, un’emergenza a cui non sono state opposte fino ad oggi soluzioni davvero efficaci. Mi rendo conto che non è facile aggiustare adesso una realtà difficile che è diventata tale nel tempo, che si è trascinata per anni senza che nessuno sembrasse accorgersene e che adesso presenta inesorabilmente il conto. Chi leggerà il mio libro si è accorto che la storia narrata è ambientata nel 2006: non si tratta di una casualità, ma di una scelta ben precisa che racchiude un messaggio a mio avviso importante, e cioè che la precarietà, la mancanza di lavoro, l’imporsi di una realtà sociale che pare non saper più offrire ai giovani alcuna certezza, tutto questo non è legato solo alla grave crisi economica degli ultimi anni. Il romanzo racconta di giovani che già nel 2006, vale a dire prima che la recessione si affermasse in tutto il mondo, erano alle prese con molti dei problemi che ancora oggi tormentano il nostro Paese. Se la quotidianità è oggi rappresentata da numeri sempre più preoccupanti relativi alla mancanza di lavoro, da contratti che definire assurdi è in tanti casi un eufemismo, dall’assenza di prospettive a medio-lungo termine, beh, credo che di sicuro lo Stato non ha fatto abbastanza e, quantomeno, ha sottostimato un aspetto preoccupante che, nel tempo, è diventato un problema enorme. Credo che la responsabilità principale delle istituzioni sia stata quella di sorvolare su certe situazioni, di non prestare ascolto ai segnali lanciati tempo fa, e addirittura di accusare i giovani, aggiungendo il danno alla beffa. Il risultato finale è che, oltre a dover adesso fare i conti con un problema ingigantitosi considerevolmente, si è creata una spaccatura difficile da rimarginare tra la politica e la cosiddetta società civile.

Quanti giovani si rivolgono alla Vostra struttura di Patronato Epas per avere informazioni sul pianeta lavoro?

Il Patronato Epas si occupa prevalentemente di pensioni, per cui ha come assistiti soprattutto lavoratori prossimi al pensionamento o comunque cittadini che hanno diritto alle prestazioni previdenziali previste dalla legge; di conseguenza, i servizi messi a disposizione dei cittadini, seppur molto variegati, non riguardano prevalentemente informazioni sull’occupazione o su come cercare e trovare lavoro. Ad ogni modo, siamo molto attenti a ciò che ci accade intorno, tastando il polso alla realtà italiana in continuazione, come in effetti traspare dalle nostre iniziative e dal lavoro svolto attraverso il nostro mensile “Il Paese Possibile” e il sito della nostra struttura: il Presidente Nazionale del Patronato Epas, Denis Nesci, è da sempre molto attento alle dinamiche occupazionali, e non manca mai di far sentire la propria voce riguardo queste problematiche. Ovviamente ci capita di misurarci con cittadini che chiedono aiuto anche solo sotto forma di notizie riconducibili all’universo previdenziale e a quello lavorativo, vista la grande incertezza che domina la scena in questo particolare periodo storico, e come d’altronde ho sperimentato io stesso durante le varie presentazioni del romanzo “Precarietà a tempo indeterminato” fatte in giro per l’Italia: tante volte mi vengono chieste opinioni anche su possibili interventi del Governo o su dati riconducibili a studi statistici o economici, quando in realtà il libro che ho scritto non è un saggio e non propone soluzioni, ma è un romanzo che, in quanto tale, ha il compito di raccontare delle storie, di mettere in luce alcune realtà e di far sorgere determinate domande evidenziando aspetti a mio avviso degni di nota. Credo che le risposte dovrebbero offrirle altre figure, cioè chi di lavoro ha il compito di fare di tutto per migliorare la vita dei cittadini.

È ancora elevata la percentuale di lavoro nero e perché?

Il lavoro nero è ancora un’autentica piaga per il nostro Paese, uno degli impedimenti più grandi alla crescita economica ed occupazionale. Su questo credo che non ci possano essere dubbi, è una realtà sotto gli occhi di tutti e non esiste nessuno, né aziende, né datori di lavoro, né lavoratori, che ignori le conseguenze deleterie di questa pratica. Se però il lavoro nero esiste ancora e anzi non accenna a diminuire, vorrà pur dire che esistono situazioni su cui riflettere: certo, non si tratta di comportamenti giustificabili, però bisogna anche valutare cosa spinge le persone ad optare per questa via. Dal punto di vista del datore di lavoro le motivazioni vanno sicuramente ricondotte ad una questione di spese e di risparmio, poiché in molti casi la pressione fiscale a carico delle aziende è pesante, in alcuni casi insostenibile; è ovvio però che la soluzione non va ricercata nelle infrazioni e nel non rispetto delle regole. Dal punto di vista dei lavoratori, purtroppo, spesso non viene concessa alcuna alternativa a chi è mette a disposizione la propria professionalità in cambio di un salario: certo, anche questo ragionamento è da condannare, ma specialmente in un periodo di crisi come quello attuale mi rendo conto che per un giovane o per una persona che deve contribuire al mantenimento della famiglia sia molto arduo potersi permettere di rifiutare un lavoro. Molto spesso infatti si accettano impieghi con stipendi improponibili, sperando che nel tempo possa cambiare qualcosa. Nel mio libro diversi protagonisti sono alle prese con lavoretti che diventano a volte l’unica possibilità di avere delle entrate: c’è chi si occupa di volantinaggio, chi fa il cameriere, chi lavora in un call center, e purtroppo con l’affermarsi della precarietà che, ripeto, è sempre più minacciosa nel suo divenire un fenomeno a tempo indeterminato, il lavoro nero trova un terreno fertile per radicarsi ed attirare migliaia di persone. Occorrerebbe indubbiamente intensificare i controlli e garantire il rispetto delle regole, senza dimenticare che lavorare in nero significa non solo favorire un atteggiamento illegale, ma anche rifiutare tutte le tutele che spettano ai lavoratori, comprese quelle relative alla sicurezza e alla salute.

Circa 2 anni fa Lei ha scritto un libro sul tema precariato. Se dovesse riscriverlo cosa cambierebbe e quanto è cambiato il Suo pensiero?

Il libro che ho scritto e che è stato pubblicato due anni fa dalla casa editrice “Sensoinverso edizioni” di Ravenna ha attirato parecchio l’attenzione, per via del tema trattato che, purtroppo, è ancora oggi di grande attualità. Da parte mia ho cercato di coniugare le mie inclinazioni letterarie col desiderio di creare un’opera che si discostasse in qualche modo dalla marea di cifre, numeri, studi economici e sociologici riconducibili al precariato, dando vita ad un romanzo che tratteggiasse le peculiarità di questo fenomeno sociale attraverso un’analisi diversa, attenta alle dinamiche che ruotano attorno al precariato occupazionale e che investono un’intera generazione, invadendone la sfera personale tout court. Scegliendo la via del romanzo ho quindi realizzato un libro che, nelle mie intenzioni, può essere attuale anche fra parecchi anni, poiché ha fotografato una realtà che ha delle precise coordinate temporali: partendo da questa considerazione posso quindi affermare che, per quel che mi riguarda, rileggendo il libro non cambierei nulla di quanto ho scritto, anche perché il risultato finale è frutto di un accurato lavoro di rilettura e di analisi e ho provveduto a “pesare” ogni parola utilizzata. Certo, dovessi scrivere un libro sul precariato oggi probabilmente sarei influenzato da quanto accaduto negli anni successivi alla pubblicazione del romanzo, dai nuovi libri che ho letto, dalle nuove esperienze vissute, in primis dal fatto che ora ho un lavoro che mi piace molto e mi gratifica. Relativamente al mio pensiero sul precariato, il mio pensiero non è certo cambiato in positivo, soprattutto se penso che a distanza di 2 anni il problema persiste e, se vogliamo, è ancor più drammatico di prima: probabilmente però non scriverei un libro diverso come stile, perché da aspirante scrittore mi piace affrontare qualunque tema sociale da romanziere più che da saggista o da giornalista. Comunque sono molto soddisfatto del lavoro fatto e non ho intenzione, almeno per ora, di scrivere un possibile seguito del romanzo: sto provando anzi a valorizzare questo lavoro attraverso altri progetti, come presentazioni in diverse città italiane, ma soprattutto con la realizzazione di una serie di cortometraggi ispirati al mio libro. A tal proposito sono molto felice di poter annunciare che il primo corto legato a “Precarietà a tempo indeterminato” è già stato realizzato, con la regia di Accursio Graffeo, e accompagnerà il libro in tutte le presentazioni che verranno organizzate da qui in avanti.

Quale messaggio lascia ai nostri giovani lettori e perché no anche ai loro genitori, compagni di ansie e preoccupazioni dei loro figli?

Non è di certo facile ergersi ad esperto in materia e fornire consigli utili ai giovani o a chi, come giustamente dice lei, vive le ansie dei propri figli impegnati nella ricerca di un lavoro. Certo, sebbene i tempi siano difficili, l’errore più grande da commettere è quello di rassegnarsi e di accettare passivamente questa situazione o, peggio ancora, di pensare che non esista una via d’uscita. Sono convinto che le cose possono cambiare, e soprattutto che noi cittadini abbiamo il potere di favorire un’inversione di rotta, facendo sentire la nostra voce e utilizzando tutti gli strumenti a nostra disposizione, ad iniziare dal voto e passando, perché no, per manifestazioni pacifiche e richieste di confronto. Ognuno, nel suo piccolo, può fare qualcosa di notevole, anche soltanto favorendo il dialogo e prendendo concretamente coscienza della realtà attuale, senza farsi troppo distrarre da altre cose meno importanti: è ovvio poi che il compito più grande spetta alle istituzioni e ai soggetti che hanno il dovere di rappresentare i cittadini, in primis i partiti. Io, dal canto mio, ho provato a descrivere il malessere legato a questo fenomeno sociale presentandolo come una crisi di valori, certezze e serenità, una crisi che invade ogni aspetto della nostra generazione, lanciando un messaggio ben preciso: non bisogna adagiarsi e vivere come se questo problema non riguardasse tutti, ma mantenere ben saldi i propri principi al fine di non soccombere al cospetto di una realtà sociale che sembra non curarsi più dei bisogni primari delle persone. Come messaggio di speranza, posso dire che alla fine sono riuscito ad emergere dal grigiore del precariato e della disoccupazione con tenacia e con la consapevolezza delle mie capacità, e che oggi ho un bel lavoro che mi dà parecchie soddisfazioni. Ecco, credo che sia fondamentale non arrendersi e resistere nei momenti di difficoltà, senza avvilirsi e senza perdere la fiducia in se stessi, facendo di tutto affinché il diritto di ognuno ad avere un lavoro venga tutelato. Solo così potremo dare il nostro irrinunciabile contributo per far sì che non si debba più parlare di una realtà basata su una “Precarietà a tempo

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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