“Dei Delitti e delle Pene” di Cesare Beccaria. Ecco con cosa e chi cimentarsi per avere un quadro iniziale ma completo della “Scienza del Diritto”, quale prodotto dell’argomentazione intellettuale umana che Carnelutti (altro grande giurista) considera addirittura degna di assurgere al rango di Scienza: non in quanto il diritto giunga però a conclusioni tendenzialmente certe ed incontrovertibili, come accade ad esempio per le c.d. scienze naturali (fisica, chimica etc.), ma poiché – poste determinate premesse più o meno opinabili perché rappresentate dai beni o valori degni di protezione a giudizio della collettività di una data epoca ed area geografica più o meno ampie – il diritto è in grado di giungere, tramite argomentazioni logiche, a conclusioni che si giustificano ed allo tempo stesso giustificano i punti di partenza stessi.

Ma perché Cesare Beccaria e la sua opera? Perché iniziare da un’epoca apparentemente così lontana (il diciottesimo secolo), dall’unico trattato di diritto scritto dal ventiseienne autore, il quale peraltro non era neppure un tecnico della legislazione (gli studi che maggiormente lo interessavano, infatti, riguardavano soprattutto la letteratura e l’economia)?

Si deve partire da Cesare Beccaria e dalla sua unica opera in materia, poichè nessuno, prima di lui, seppe con la stessa grandezza essere così classico e moderno al tempo stesso, tanto lungimirante da sintetizzare e superare la sua epoca; in ciò probabilmente aiutato anche dal suo distacco degli ambienti forensi, lontananza che gli consentì di vedere con drammatica chiarezza che cosa veramente significassero, per gli uomini dell’epoca, il diritto ed in particolare la procedura penale del tempo.

Il trattato “Dei delitti e delle pene” fu pubblicato nel 1764, mentre cambiamenti radicali stavano investendo l’Italia e l’Europa. L’apertura di nuovi mercati al di fuori del Vecchio Continente, il perfezionamento dell’organizzazione della produzione, la grande ripresa degli scambi commerciali, avevano sviluppato nuove ed impetuose forze in seno alla società feudale ormai morente. Lo slancio della nuova realtà economica era, però, frenato dalle vecchie strutture politiche, che assicuravano il dominio di una classe improduttiva e irretivano l’attività degli uomini con ogni sorta di ostacoli e di imposizioni; esse erano sorrette solo dall’interesse di poche famiglie, che esercitavano su zone più o meno vaste il loro potere dispotico, prosperando sulla miseria generale. I deboli governi di ben nove diversi stati italiani non potevano limitare che assai scarsamente l’arbitrio dei signorotti locali, perché proprio questi costituivano la loro base. La lotta contro la vecchia società che crollava era guidata dalla giovane borghesia, costituita dagli elementi dirigenti della produzione: proprietari di manifatture, banchieri, commercianti. La grande rivolta contro il feudalesimo morente non poteva non investire le istituzioni di diritto ed in specie di procedura penale, che costituivano il mezzo di oppressione più diretto nelle mani della classe dominante e presentavano, spinte all’estremo, l’arretratezza, la corruzione, il disprezzo dell’uomo, comuni a tutto il sistema.

Alla radice del diritto penale del medioevo era la concezione del delitto come offesa al principe o al feudatario. Il reo poteva, per alcuni delitti, essere liberato dietro pagamento di una somma di denaro; il giudice non era altro che un servo del signore, che considerava il processo come un suo affare privato; unico obiettivo del giudizio era quello di provare la colpevolezza dell’imputato, per permettere ai potenti di liberarsi dai nemici o di aumentare le proprie rendite; l’incertezza e l’oscurità delle leggi rendevano possibili ogni arbitrio.

A tutto ciò si aggiungevano sovente le giustificazioni di carattere religioso approntate dalla Chiesa, spesso lontana dal perseguimento del messaggio evangelico e piuttosto vicina invece a soddisfare interessi materiali. Il dominio di qualsiasi signorotto era così giustificato da una pretesa investitura divina; le peggiori atrocità commesse sul corpo dell’imputato (torture) erano giustificate identificando il delitto con il peccato ed affermando la conseguente necessità di “purificare” il reo.

Contro una simile situazione erano gia insorti altri autori, prima di Beccaria; particolare risonanza avevano avuto i volumi del Montesquieu su “Lo spirito delle leggi”, pubblicati per la prima volta nel 1748, nei quali si trattava anche del diritto penale.

Nessuno, però, aveva saputo dipingere le atrocità del sistema, abbattere i tentativi di giustificazione, additare i nuovi principii, con la forza e l’incisività di Cesare Beccaria.

L’antitesi tra il vecchio e il nuovo balza viva da tutto il testo dell’opera. Al cupo misticismo medievale si contrappone una concezione utilitaristica, che vede il delitto come un turbamento del sistema di convivenza degli uomini e le pene come un mezzo per impedire tale turbamento e permettere ai cittadini di vivere liberi e sicuri. Le conseguenze pratiche di tali principi sono riassunte nelle parole della conclusione, che l’Assemblea Nazionale francese riportò quasi testualmente nell’art. 8 della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”: “… perché ogni pena non sia violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi”.

L’affermazione rivoluzionaria del valore della personalità umana è sintetizzata nella frase del capitolo XXVII: “Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”.

In tal modo, mentre la morale religiosa tendeva a giustificare le crudeltà di un sistema ormai putrido, la morale utilitaristica di Cesare Beccaria, largamente influenzata dalle correnti materialistiche dell’illuminismo, esprimeva le profonde esigenze umane di quanti soffrivano sotto il giogo del regime feudale; proprio per il suo profondo senso di umanità egli, trattando di alcuni delitti, seppe tratteggiare l’origine reale posta nella miseria e nell’ingiustizia ed aprì quindi la strada alla ricerca veramente scientifica delle cause dei reati.

Avv. Luigi Milanese Università Sapienza di Roma

Avatar

Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

Lascia un commento