Negli ultimi anni le mafie, soprattutto dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, atti eclatanti, sanguinosi, fortemente rappresentativi della loro barbarie, hanno subito cocenti sconfitte e una sostanziale “decapitazione” dei loro leader storici: Riina, Brusca e Provenzano.

Ma il fenomeno mafioso, purtroppo anche quando sembra al tappeto, è sempre pronto a rialzarsi, a reclutare nuove leve attinte dalle “scuole di formazione criminale” che infondono valori e mentalità caratterizzate da violenza, crudeltà e inettitudine morale. Regole finalizzate alla creazione di nuovi Riina, Brusca e Provenzano in una sorta di tradizione ininterrotta e drammatica. Questo però non deve abbattere le speranze e gli sforzi di chi quotidianamente combatte una realtà come quella mafiosa, recrudescente ma non invulnerabile.

In un momento storico in cui cosa nostra abbandona la dimensione autoctona e locale per cercare consenso a livello nazionale i successi del passato devono fungere da traino e da viatico per quelli futuri, per far sì che un giorno tutte le mafie rappresentino solo un triste ricordo nella storia, a volte travagliata, della nostra nazione. Uno degli elementi fondamentali per sconfiggere questo fenomeno è procedere con decisione verso il suo impoverimento confiscando tutti i beni e i patrimoni acquisiti mediante l’impiego di denaro cosiddetto sporco, frutto di attività illecite, per utilizzare un eufemismo. Si tratta di un principio fondamentale che Pio La Torre, parlamentare della Commissione antimafia, ucciso a Palermo il 30 aprile 1982, comprese in modo molto chiaro. Infatti, la legge che introdusse nel codice penale italiano l’articolo 416-bis insieme alle altre norme, denominate misure patrimoniali, che sanciscono e regolano la confisca dei capitali mafiosi, porta il suo nome insieme a quello dell’allora Ministro dell’Interno, Virginio Rognoni.

Uno dei pregi della legge Rognoni-La Torre, che ha analizzato e compreso l’essenza dell’azione mafiosa volta ad acquisire, in modo diretto o indiretto, la gestione e il controllo delle attività economiche e a condizionare l’attività amministrativa, consiste anche nell’aver predisposto gli strumenti tecnico-legali necessari per aggredire le mafie sotto l’aspetto economico-finanziario. Come spesso è accaduto nella legislazione antimafia italiana, la piena consapevolezza dell’importanza dei patrimoni delle mafie fu raggiunta sull’onda della reazione della società civile agli efferati crimini perpetrati da cosa nostra contro esponenti delle istituzioni, “colpevoli” di aver compreso l’importanza strategica di quei capitali sporchi di sangue e il peso che la loro confisca avrebbe avuto per l’esistenza stessa di quelle organizzazioni criminose. Quella consapevolezza indusse tutte le forze politiche a far sì che il Parlamento varasse la legge 13 settembre 1982 n. 646. In quel modo si conferiva concretezza a ciò che appariva agli occhi di tutti lapalissiano: bloccare con ogni mezzo il finanziamento delle organizzazioni mafiose, essenza e ragione profonda della loro persistente pericolosità per i sistemi economici e per la convivenza civile. Vi era però, dopo questa legge, la profonda necessità di una specifica disciplina normativa che assicurasse una gestione attenta e razionale, e una conseguente destinazione, dei patrimoni delle mafie, completando in modo sostanziale un atto legislativo che, proprio a causa del contesto emergenziale in cui era nato, aveva trascurato il problema della sorte dei beni sottratti ai mafiosi.

Necessità che venne soddisfatta con l’approvazione dalla legge 7 marzo 1996 n. 109, una legge di iniziativa popolare sostenuta dalla raccolta di un milione di firme da parte dell’associazione Libera di Don Ciotti. Legge, che ha rappresentato una passaggio fondamentale, una sorta di “svolta”, sbloccando i gangli burocratico-legislativi che fino a quel momento avevano impedito l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie.

La legge 109 del 1996, infatti, introdusse gli articoli 2-nonies e seguenti della legge 31 maggio 1965 575 aggiungendo, alle disposizioni in tema di misure di prevenzione patrimoniale, norme specifiche appositamente dedicate alla destinazione dei beni confiscati, completando così in modo puntuale ed esaustivo quel quadro legislativo che aveva iniziato ad occuparsi della questione con la legge 4 agosto 1989 n. 282, di conversione del decreto legge 14 giugno 1989, n. 230, che dettò le prime norme in materia di destinazione dei tali beni.

L’indifferibile necessità di una legge che affrontasse organicamente la questione era suggerita almeno da due riflessioni. La prima riflessione scaturiva dalla constatazione che i beni confiscati deperivano senza alcuna utilità fattuale: avveniva, cioè, che aziende confiscate alla criminalità organizzata conducessero solo alla disoccupazione di chi era precedentemente occupato in esse e che immobili interi andassero in rovina perché nessuno se ne curava, con il rischio aggiuntivo che servissero solo a far lievitare le spese sostenute dallo Stato per la loro amministrazione. Un tale scenario inoltre alimentava l’idea di uno Stato che limitava la propria azione alla fase meramente repressiva e si mostrava incapace di ricollocare legalmente l’utile “mafioso”. Insomma uno Stato efficace nella fase destruens ma vago e sterile il quella costruens.

Ciò induceva ad un’altra riflessione, che non poteva passare inosservata per chi si rese promotore della legge 109 del 1996: tale riflessione, figlia della precedente, riguardava la strategia antimafia statale ed in particolare alla “convenienza” dell’antimafia. Se l’azione antimafia dello Stato si limitava esclusivamente al momento repressivo, poteva apparire contraria allo sviluppo dei territori. L’azione di contrasto alla criminalità mafiosa sarebbe apparsa invece più efficace se, oltre ad avere gli strumenti repressivi finalizzati a sottrarre alla struttura mafiosa i beni accumulati, fosse riuscita a restituirli alla collettività, incentivando l’utilizzazione sociale in un contesto sinergico di legalità e sviluppo. Tutto questo avvenne. La villa del mafioso diventata casa di riposo per anziani, il palazzo del mafioso convertito in ufficio pubblico, in sostanza, inviavano un segnale positivo e rassicurante che si aggiungeva e dava forza all’arresto del mafioso perché erano la prova tangibile della restituzione alla collettività di ciò che la criminalità aveva sottratto ad essa illegalmente.

In definitiva, la misura dell’efficacia delle misure di prevenzione, intesa come capacità di produrre effetti concreti, significativi, ma soprattutto visibili, si basava e si fonda proprio sul piano della riconversione delle ricchezze secondo finalità che siano specularmente e diametralmente lontane dal crimine, aventi cioè un segno inverso rispetto ad esso: il volontariato, il soddisfacimento delle esigenze abitative dei non abbienti, il recupero dei tossicodipendenti, il risanamento dei quartieri degradati, ma soprattutto l’educazione alla regola inequivocabile che beni, dei quali sia stata accertata la proprietà da parte di soggetti appartenenti alle organizzazioni mafiose, debbano essere confiscati, ossia sottratti definitivamente a coloro che ne risultano proprietari. Beni che possono essere immobili (case, terreni, appartamenti, box, ecc.), mobili (denaro contante e titoli) o addirittura aziende. Questa è stata la vera svolta: la possibilità di concedere, gratuitamente, questi beni ai Comuni, alle Province e alle Regioni (Legge 27 dicembre 2006, n. 296, comma 201-202), a comunità, associazioni di volontariato, cooperative sociali e trasformarli in scuole, comunità di recupero per tossicodipendenti, case per anziani, ecc. Nelle regioni meridionali, ad esempio, sono sorte delle cooperative sociali di giovani che coltivano terreni confiscati producendo pasta, vino e olio. Ciò che inoltre va sottolineato è il valore altamente simbolico che la destinazione a fini socialmente utili di tali patrimoni ha assunto e rappresenta ancora oggi per le comunità segnate dalla presenza mafiosa, il segnale più forte e concreto della riaffermazione positiva dell’autorità statale che, in questo modo, restituisce alla collettività quanto illecitamente era stato ad essa sottratto con l’intimidazione e la violenza e mascherato, con il ricatto e la minaccia, sotto forme di legittima disponibilità.

Appare comunque chiaro che la gestione dei beni confiscati ai mafiosi, necessiti di adeguate forme di monitoraggio rivolte ad assicurarne la trasparenza, nonché un’equa fruizione sociale come la legge prevede. Occorrono degli aggiustamenti concreti e tempestivi. In primo luogo l’organo nazionale che si occupa materialmente della questione esiste ed è l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alle mafie, ma va assolutamente meglio organizzata per diventare davvero funzionale e ottimizzare il suo intervento. Un ente del genere oltre a tutte le risorse economiche e umane necessarie al suo operato soprattutto necessita di una sostanziale localizzazione delle sue strutture per affrontare territorialmente, e con cognizione di causa, ogni singolo caso. Altra questione che incombe è quella della vendita di questi beni come una delle soluzioni per far fronte alla crisi economica nazionale. Una soluzione del genere comporta in sostanza due criticità: La prima è costituita dal fatto che una vendita pubblica senza un controllo adeguato potrebbe far tornare il bene sequestrato nelle mani della criminalità, la seconda è che in questo modo si negherebbe il riutilizzo sociale di tale bene e con esso la possibilità di crescita economica, di reddito e di creazione di nuovi posti di lavoro. Crescita economica, reddito e lavoro: queste sono le armi più efficaci per combattere una crisi di questo tipo.

La materia è estremamente delicata sia per il valore simbolico che l’utilizzo di questi beni porta con sé sia perché tale utilizzo ha il compito di soddisfare gli effettivi bisogni sociali che i cittadini palesano e che dovrebbero occupare i primi posti dell’agenda pubblica dei governanti.

I primi aggiustamenti che occorre apportare riguardano l’eliminazione dei gangli burocratici che impediscono un’adeguata soluzione alle questioni sopracitate: vi sono casi di associazioni che nel giro di un paio di settimane vedono soddisfatte le loro richieste di affidamento del bene, mentre altre attendono per anni o vedono rigettate le proprie istanze, in assenza di adeguata e verificabile argomentazione e quindi in palese violazione delle norme sul procedimento amministrativo. Esiste inoltre una precisa disposizione regolamentare, che definisco imprescindibile, in virtù della quale gli appartamenti confiscati ai mafiosi debbano in primis essere dati alle famiglie indigenti, inserite nella graduatoria dell’emergenza abitativa. E’ ovvio, infatti, che il diritto all’alloggio garantito anche dalla nostra Costituzione, deve trovare un posto stabile nel nostro ordinamento, utilizzando tutte le risorse disponibili, per evitare l’inutile consumo del territorio con la realizzazione di nuove abitazioni, per assicurare un tetto a chi non ce l’ha e anche per fruttare un minimo contributo economico per le amministrazioni, costituito dalle piccole somme di affitto pagate per questo tipo di immobili. Insomma per questi beni il riutilizzo sociale deve essere un risolutore dei problemi della comunità e un catalizzatore della crescita economica.

Come detto il fenomeno mafioso è stato fortemente indebolito, ma non abbattuto definitivamente, anzi in alcuni casi quando viene recisa la testa dei clan , essa sembra rinascere secondo rapide dinamiche di autogenerazione spontanea. Per questo occorre continuare a lavorare con strumenti sempre nuovi e strategie opportune atte a contrastare una realtà proteiforme e in costante evoluzione come quella mafiosa, per far sì che non segua il destino dell’araba fenice risorgendo dalle sue stesse ceneri. Uno di tali strumenti è il nuovo codice antimafia varato da poco che apporta notevoli miglioramenti a determinate fattispecie contemplate anche nel precedente pur mantenendo superficialità, non detti e sostanziali debolezze strutturali su altre. Esso prevede nuove norme per migliorare l’individuazione dei casi di infiltrazioni mafiose nel mondo delle imprese e degli appalti. Con l’approvazione del Consiglio dei ministri del documento legislativo che approva le integrazioni al Codice si aggiornano anche le disposizioni in materia di documentazione antimafia. Tra le novità, su questo fronte, l’immediata entrata in vigore delle norme che regolano la documentazione antimafia, non più subordinata al decorso dei due anni dall’emanazione dei regolamenti sul funzionamento della Banca dati nazionale. Fino alla realizzazione della Banca dati, le Prefetture continueranno ad utilizzare i collegamenti già in uso attraverso i sistemi informatici realizzati sulla base della precedente normativa. Nuovo “catalogo” delle situazioni di infiltrazione mafiosa e controlli estesi. Di particolare rilievo anche l’ampliamento dei controlli in diversi ambiti (rivolti ai membri del collegio sindacale e agli organismi interni di vigilanza sul rispetto dei modelli comportamentali delle imprese) e delle situazioni cosiddette “indizianti”: ovvero la vasta gamma delle circostanze che permettono di capire la presenza o meno di infiltrazioni mafiosi all’interno di realtà d’impresa pubblica e privata, che comprenderà, tra le altre, anche le reiterate violazioni degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari derivanti da appalti pubblici. Per la prima volta, il Codice introduce poi una procedura di controllo “antimafia” sulle imprese straniere, anche se prive di una sede in Italia. Tale procedura é già stata sperimentata positivamente, con risultati efficaci seguite per la ricostruzione dopo il sisma in Abruzzo e per l’Expo 2015. Quanto alla circolazione delle Interdittive antimafia si estende l’obbligo di comunicazione ad altri soggetti istituzionali interessati, tra cui l’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato, in vista della realizzazione del cosiddetto “rating di impresa”, e l’Autorità Giudiziaria, titolare del potere di proporre l’adozione di misure di prevenzione. Infine, le modifiche apportate al Codice attuano una completa decertificazione del procedimento di rilascio della documentazione antimafia, mentre nelle controversie relative ai beni sequestrati o confiscati alla criminalità organizzata l’amministratore giudiziario e l’Agenzia nazionale potranno usufruire del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. Il “rating di impresa”, ossia l’attribuzione a ciascuna azienda di un voto, conferito rispetto alla posizione assunta nei confronti delle associazioni mafiose; un parametro che misura il livello di legalità finalizzato ad una sorta di classificazione delle imprese “virtuose” trova d’accordo la Magistratura nella sua totalità. Il grado di rispetto delle regole in questo senso sarà utilizzato come strumento premiale nell’accesso ai prestiti bancari e alle agevolazioni pubbliche. Insomma la vera lotta alla criminalità organizzata consiste proprio nell’intervenire in tali settori e nel bloccare i patrimoni e gli investimenti delle associazioni mafiose, ciò rende importante dare concreta attuazione alle prescrizioni contenute in tale normativa, le quali, se realizzate, consentiranno un monitoraggio, costante e tanto invocato, sulle imprese stesse per verificare la sussistenza delle condizioni ostative a contrarre qualunque forma di collaborazione con la pubblica amministrazione.

Le superficialità sopracitate sono evidenziate dal procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. Grasso ritiene che la raccolta esaustiva delle norme vecchie e nuove in materia debba essere finalizzata ad una più agevole consultazione e considera il testo approvato palesemente insufficiente, innanzitutto perché è stato consentito al Governo solo una ricognizione della legislazione senza nuovi interventi accompagnata da un incomprensibile limitazione d’intervento su temi quali le norme riguardanti il 41 bis, lo scioglimento dei consigli comunali, i Comitati di sorveglianza sulle grandi opere, gli agenti sotto copertura, l’antiracket e l’antiusura.

Altro intervento dovrebbe essere finalizzato verso i beni confiscati sui cui gravano ipoteche, il 43%, e per questo difficilmente destinabili. La forte aggressione ai beni della criminalità organizzata ha comportato una fuga verso l’estero e, sotto questo profilo, è difficile intervenire per la mancata attuazione da parte del Parlamento della direttiva europea sulle confische.

Per i beni confiscati L’obiettivo rimane quindi il medesimo: colpire la criminalità dove ci sono i suoi maggiori interessi, nel suo cuore economico e riportarne i profitti nel circuito dell’economia legale. Inoltre una tale riconversione sociale dei beni mafiosi a livello nazionale ed europeo rappresenta e potrà rappresentare in futuro una via percorribile, tra le altre, per superare la crisi mondiale, raggiungere la fine di quel tunnel che da troppo tempo attanaglia il futuro lavorativo e la sussistenza economica di tutti, sotto la guida, in questa ascesa, proprio di quelle regioni che oltre ad avere gli stessi problemi degli altri convivono con realtà di disagio sociale, criminale e mafioso, quotidianamente e da troppo tempo. Tutto ciò rappresenta un bel messaggio di speranza che si diffonde trasversalmente in tutte le comunità del mondo.

Ecco la vera essenza, la forza intrinseca di tale legislazione, di una risposta normativa del genere, ora più che mai diventata improcrastinabile. La confisca dei beni alla mafia, la sottrazione dei patrimoni ad organizzazioni criminali che se ne erano impossessate con la violenza, con cieca crudeltà, con il sangue significa bloccare il sistema circolatorio che tiene in vita l’organismo mafioso, portandolo inevitabilmente alla sua fine e la riconversione sociale di questi beni, oltre ai vantaggi e alle opportunità che offrono alle persone meno fortunate come gli indigenti, i tossicodipendenti e alle giovani generazioni in termini lavorativi, rappresentano ancora una volta e in modo de tutto evidente come dal male più barbarico e profondo può nascere il bene. Come dall’illegalità può nascere la legalità. Come da un passato caratterizzato da sopruso, corruzione e morte può nascere un futuro fatto di giustizia.

Dott. Marino D’Amore

16/08/2013

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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