Doppio Lavoro del pubblico dipendente:

Ciò che viene esposto riguarda in primis l’atteggiamento burocratico-funzionale delle amministrazioni e l’avulsa e deleteria forma mentis che gravita attorno alla tematica.

Il presente articolo ha un intento prettamente propositivo volto alla risoluzione e all’evoluzione generazionale.
E’ utile trattare ciò che realmente riguarda l’apparato operativo e autorizzatorio del doppio lavoro, la parte pratica che interessa al dipendente.
Colui il quale al giorno d’oggi decide di regolarizzare la sua posizione con l’attività extraprofessionale, si trova dinnanzi a controversie burocratico-operative nonché ad una mentalità recalcitrante che spesso induce repentinamente a rimanere nel sommerso. Il quesito appare ancora il medesimo: si può migliorare la situazione? Ci si può incanalare in un cammino rivolto alla risoluzione?
Nei precedenti articoli è stato pienamente compreso, con sondaggi eclatanti, che la responsabilità oggettiva del fenomeno è scarsamente attribuibile al dipendente indisciplinato.

Per chi ancora non avesse compiuto i dovuti conteggi, la realtà delle attività extra-istituzionali del pubblico dipendente è un movimento dalla portata esorbitante, con numeri da capogiro. La percentuale di dipendenti che esercitano attività extra è davvero altissima e l’80% di questa gravita nel sommerso. Le risorse investite dalle amministrazioni sono pressoché unicamente rivolte al regime sanzionatorio, ad attività di indagine atte a smascherare dipendenti inottemperanti.
Tale contingenza è del tutto lecita e doverosa, ma non esiste attualmente la congrua contrapposizione con quelle che sono le attuazioni rivolte alla trasparenza, all’evoluzione normativa, alle modalità esecutive, alla razionalità e buon senso offuscate dalla coltre nube della discrezionalità tradizionalistica.
Quest’ultimo fattore costituisce il deleterio risvolto enfatico della tematica. Un’istanza di autorizzazione transita attraverso la pura e genuina discrezionalità del singolo elemento preposto alla trattazione che troppo spesso, come da testimonianza diretta e documentata dai dipendenti, valuta le richieste con scarse radici normative e solenni convincimenti personali. Ho personalmente trattato decine e decine di istanze. Più volte i dipendenti mi hanno scritto evidenziando in maniera chiara che spesso una medesima istanza con identici requisiti e con tutti gli elementi di compatibilità chiari e ben delineati, inviata alla stessa amministrazione, ha ricevuto risvolti opposti per il solo fatto di essere stata trattata da due diversi uffici o sezioni gerarchiche. E’ utile sottolineare come la compatibilità e l’esito di un’istanza sia spesso proporzionatamente connessa non tanto a risvolti normativi oggettivi, ma tanto alla pura moderazione e soggettività del singolo operatore preposto alla trattazione. Un presupposto alacremente deleterio per l’intera comunità.
La pura discrezionalità uccide la moralità. Purtroppo i dati di fatto parlano chiaro: la soggettività autentica è congiunta ad una forma-mentis ben definita e radicata in una tradizionalistica concezione delle norme così come furono concepite, senza il doveroso transito attraverso le evoluzioni giurisprudenziali e generazionali intercorse negli anni. L’attuazione ufficiale delle amministrazioni è sempre rivolta alle normative di ordinamento scaturite in gran parte dall’art. 60 del D.P.R. n. 3 del 1957, senza tener conto delle evoluzioni giurisprudenziali. Le testimonianze che riportano di dipendenti della comunità sono chiare e palesi: l’attuazione continua ad essere la medesima condita e ratificata dalla pura, soggettiva e tendenziosa discrezionalità del funzionario preposto alla trattazione.
Certe inclinazioni mentali sono comunemente e statisticamente recalcitranti al cambiamento, al contesto attuale, all’evoluzione generazionale e all’innovazione.
Altra problematica che racchiude il risvolto burocratico operativo è la soglia annuale puramente discrezionale di remunerazione per attività extraprofessionali imposta attualmente dalle amministrazioni. L’orientamento in uso è quello di autorizzare al dipendente solo attività con presupposti tecnici di saltuarietà ed occasionalità con un numero limite di prestazioni annuali (in alcuni frangenti orarie) e soprattutto con una remunerazione lorda di euro cinquemila. Appare chiaro quanto la limitazione discrezionale della maggioranza delle amministrazioni sia realmente ridotta.
Statisticamente buona parte delle attività extra dei pubblici dipendenti è rivolta all’esercizio di consulenze specialistiche di vario genere le quali, molto spesso, vengono retribuite con somme che raggiungono il tetto limite con poche prestazioni se non addirittura con una singola prestazione. Eppure il presupposto di continuità è ben delineato, eppure i presupposti che racchiudono la compatibilità generale dell’attività sono conformi alla regola. Nonostante questo fattore troppo spesso il dipendente termina il tetto massimo di remunerazione annuale dopo poche prestazioni.
Da evidenziare che tale limitazione è imposta non direttamente dalle normative vigenti, ma da un’inclinazione comune e puramente discrezionale delle amministrazioni che, in assenza di direttive specifiche che disciplinano le modalità operative, si sono allineate ad un generale orientamento collettivo che chiaramente non tiene conto delle singole particolarità o casistiche espresse dai dipendenti nelle loro istanze. Sarebbe utile rivalutare questo contesto con dei limiti più conformi alle contingenze attuali e alle casistiche specifiche.
Un’ulteriore problematica appare relativa al contesto autorizzatorio. Ancora i dipendenti nelle loro mail lamentano un fattore troppo consueto e quanto mai in uso nelle amministrazioni in relazione alla trattazione delle istanze: Un’attività autorizzata per l’anno solare, con pieni presupposti di occasionalità e che detiene la piena delineazione della compatibilità generica, esercitata con un numero limitato di prestazioni circoscritte, viene autorizzata solo il primo anno, spesso non per i periodi successivi in quanto le amministrazioni intravedono un presupposto di continuità laddove le poche prestazioni extra-istituzionali annuali siano protratte anche per l’anno successivo. Da inclinazione puramente giurisprudenziale estratta dalle vigenti normative sui lavoratori, l’occasionalità di un’attività è intrinsecamente correlata al concatenante rapporto tra le singole prestazioni, che devono rivestire necessariamente un contesto circoscritto di scissione tra le singole.
Pertanto apparirebbe chiaro quanto un’attività esercitata in un numero limitato di occasioni nell’anno sia occasionale sempre e comunque e non continuativa per il solo fattore che le ipotetiche dieci prestazioni annuali siano ripetute anche l’anno successivo. Anche in questo caso sarebbe opportuna una direttiva specifica che ponesse fine alla presa di posizione unilaterale e discrezionale delle amministrazioni. Una direttiva rivolta in un senso definito ed inequivocabile.
Il resoconto delle problematiche non si conclude inoltre con le menzionate asserzioni e testimonianze. Il dipendente lamenta sempre di più le tempistiche burocratiche di accoglimento delle istanze. Prendendo atto che troppo spesso i regolari tempi di trattazione e risposta ad un’istanza gravitano tra i 40 e i 60 giorni, deteriorando le velleità dei moltissimi dipendenti che ricevono spesso incarichi o proposte esercitabili in tempi più ristretti, si aggiunge sempre più la recalcitrante avversità di talune amministrazione che hanno il malcostume di non rispondere o addirittura di replicare dopo mesi e mesi, decapitando materialmente l’iniziativa, l’ambizione e la pazienza del dipendente.
In taluni casi ho assistito a ritardi anche di otto mesi nella risposta, lasciando il dipendente nella piena perplessità. Purtroppo lo stesso, per paura di ripercussioni personali, non è solito segnalare le anomalie all’ufficio ispettorato del dipartimento della funzione pubblica, lasciando pertanto queste casistiche alla totale ed incontrollata reiterazione da parte delle amministrazioni.
L’avulsa forma-mentis in atto in talune amministrazioni, recalcitra prepotentemente la voglia di regolarizzazione del dipendente pubblico, sempre più spintonato verso l’esercizio delle attività sommerse. (La statistica prevede che il dipendente che non trova chiarezza e certezza nel processo di regolarizzazione, esercita comunque l’attività extra).
Alcune amministrazioni, tra le quali alcuni dipartimenti degli appartenenti alle forze armate, appaiono ostili in forma recondita alla radice, andando a porre il diniego a istanze per attività esercitate anche in forma hobbistica, con l’apparente intento di screditare sempre più la latente inclinazione del dipendente che richiede la regolarizzazione, una malevole inclinazione a non creare precedenti consistenti dai quali estrarre casistiche e trascorsi, punti di appiglio per future richieste.
Moltissimi dipendenti sopraggiunti alla comunità di doppiolavoro.com e al relativo forum, affermano che il ministero della difesa appare l’amministrazione con ritardi nelle delibere che gravitano sempre tra i sei e gli otto mesi, con dinieghi ripetitivi concessi in via costante anche laddove i presupposti si presentano pressoché inclini ad ogni forma tecnica di compatibilità.
Eppure la circolare n. 6 del 1997 emessa dal Consiglio dei Ministri Dipartimento della Funzione Pubblica aveva ampiamente delucidato il fattore che le amministrazioni dovevano agevolare il più possibile l’indotto autorizzatorio tanto da renderlo fluido e trasparente favorendo i contesti in cui certe attività presentano un conteggio di prestazioni in forma previsionale dovute all’intrinseco evolversi dell’attività stessa.
L’intendimento che il dipendente manifesta oggi, descrivendo lo stato attuale, delinea esattamente il fattore opposto: molte amministrazioni presentano effetti totalmente recalcitranti, volti ad estrarre tutti gli elementi possibili per sopraggiungere ad un diniego, porta chiusa all’evoluzione giurisprudenziale e in alcuni casi diniego ingiustificato volto al puro scoraggiamento e mortificazione del dipendente.
Per una simile contingenza le attività extra del pubblico dipendente continuano a gravitare nel sommerso e, pertanto, voler dispensare l’intera responsabilità unicamente al dipendente appare una forzatura discriminante.
La realtà appare chiara: il dipendente, adirato per la sequela di problematiche esposte che non promettono vie di risoluzione, esercita le attività nel sommerso.
Le problematiche sono esposte dagli stessi dipendenti. Le risoluzioni sarebbero alle porte. Maggiore trasparenza, direttive univoche, riduzione drastica della soglia discrezionale e qualcosa d’altro…
Ecco il trucco che in poche mosse abbatterebbe il lavoro sommerso che gravita attorno alla tematica con numeri importanti.
A buon intenditor, poche parole.

Massimiliano Acerra.

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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