David con la testa di GoliaDavide con la testa di Golia fu uno degli ultimi dipinti di Caravaggio, realizzato tra il 1609 ed il 1610 a Napoli, anno della sua morte. Il Merisi venne arrestato e condannato alla pena capitale a causa di una rissa con un cavaliere dell’Ordine di Malta, Fra Giovanni Rodomonte Roer; riuscì ad evadere dal carcere e a rifugiarsi a Siracusa, per poi salpare da Palermo alla volta di Napoli, giungendo nella città partenopea nella tarda estate del 1609.

Caravaggio decise di raggiungere Porto Ercole con un traghetto, per poi attendere lì il perdono del Pontefice a Palo. A causa di un controllo che lo bloccò durante il tragitto perse il bagaglio a bordo del piroscafo che continuò la sua corsa, esso conteneva alcune opere, ma soprattutto la domanda di grazia per il Cardinale Scipione Borghese nipote del pontefice Paolo V, necessaria alla revoca della pena capitale, domanda a cui si accompagnava il dipinto segno tangibile della redenzione e del pentimento dell’artista.

Egli decise quindi di avviare le ricerche del documento recandosi alla destinazione finale ma venne colpito mortalmente dalla febbre malarica che interruppe bruscamente la sua vita scellerata. Comprendere l’ultimo periodo di vita di Caravaggio è un passaggio necessario per capire sia l’opera in questione sia la produzione artistica di questo periodo, si tratta infatti di un’opera autobiografica, sotto diversi aspetti.

Caravaggio si ritrae, infatti, nella testa sanguinante di Golia, esprimendo il tormento e la disperazione che vive per la sorte che lo aspetta, la condanna a morte. Un volto, quello del gigante biblico, che ad un’analisi criminologica, esprime la grande familiarità dell’artista con i cadaveri, testimoniata dall’estrema cura rappresentativo-cromatica che li connota nelle sue opere e la forza espressiva fatta di sofferenza, cristallizzata in un ultimo grido di dolore. Ulteriore prova dell’estremo atto di contrizione dell’artista è l’iscrizione posta sulla lama che il giovane stringe in pugno dove si leggono le lettere “H-AS OS”, sigla che riassume il motto agostiniano Humilitas Occidit Superbiam , l’umiltà uccise la superbia.

Inoltre il sangue che sgorga dalla ferita conferma tale familiarità e la conoscenza dell’artista rispetto a determinate tipologie di ferita, raffigurate in altri dipinti come Giuditta e Oloferne, conoscenza maturata, come detto, durante la sua esistenza fatta di arte, ma anche di omicidi, risse e grandi fughe.

Ma analizziamo il quadro.

Il giovane Davide solleva per i capelli la testa mozzata del combattente filisteo con gli occhi e la bocca dilatati. La fronte di Golia, deturpata dalla sassata, mostra gli inequivocabili segni della morte.

Merisi si rappresenta sia nei panni di Golia che in quelli di Davide, sorta di immagine idealizzata del pittore adolescente. Lo confermano le similitudini morfologiche tra questa figura, il Bacchino malato della Galleria Borghese di Roma e l’uomo raffigurato tra la folla del Martirio di S. Matteo che si trova a San Luigi dei Francesi.

In sostanza, secondo questa interpretazione, il Davide-Caravaggio non ancora toccato dal peccato uccide il Golia-Caravaggio ormai peccatore incallito e consumato da una vita di eccessi, palesando istanze di espiazione testimoniate dal soggetto del dipinto, dai suo toni chiaroscurali allegoria cromatica della luce divina che investe David e all’ombra dell’oblio che invece avvolge il volto di Golia.

La grazia agognata raggiungerà in effetti Caravaggio, ma insieme alla morte: un amaro destino preconizzato dal dipinto.

Le opere di questo periodo storico della vita dell’artista si caratterizzano per un’efferata drammaticità delle raffigurazioni, per la cruda predilezione raffigurativa rivolta al motivo della testa tagliata: Davide con la testa di Golia, la decapitazione di San Giovanni Battista e naturalmente, Giuditta e Oloferne.

Tuttavia, come altri critici hanno sottolineato, la testa di Golia, indiscusso autoritratto del pittore, non rappresenta solo l’artista, ma è la personificazione idealizzata del Male perdente rispetto a Davide, che, invece, rappresenta il Bene, ovvero Cristo.

Nel quadro vi confluiscono quindi il timore personale e meramente umano dell’esecuzione capitale, ma anche la malcelata speranza cristiana che il patimento della pena possa redimere gli eccessi di una vita fatta di vizio e peccato .

Marino D’Amore

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Di Atlasorbis

Redazione Nazionale

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